Cuba

Una identità in movimento


Cultura meticcia

Marta Rojas


Vi sono due saggi singolari scritti da due cubani in epoche diverse (li separa un secolo) che definiscono la cultura cubana e dell'America Latina come pochi testi conosciuti al mondo.

Si tratta di Nuestra America, il cui autore è José Martí e Calibán del poeta e saggista Roberto Fernández Retamar, che recentemente ha avuto una diffusione continentale grazie alla rivista Milenio della Repubblica Argentina, che ha realizzato un riassunto sul gran tema trattato da Retamar sin dal 1971. Tale tema dà nome al volume (n.3 novembre 1995) stampato in Buenos Aires con il titolo Todo Calibán.

José Martí parlò in modo chiaro ne "La Revista Ilustrada de Nueva York" (I. 12.1891) delle caratteristiche e del destino della nostra America "meticcia" e Retamar fa una meticolosa critica dei personaggi di Próspero e Calibán, protagonisti de La Tempesta di William Shakespeare, a partire dalla scomposizione sopportata per detto nome (Calibán-Canibal-Caribe) e sul protagonismo di fronte al personaggio coloniale.

In risposta ad un giornalista europeo in merito al suo libro Calibán, Retamar, alla domanda: "Esiste una cultura latinoamericana?" rispose che andava formulata in un altro modo: "Esistono loro?", siano i cubani o i latinoamericani.

Perché, continuò a dire Retamar, porre una simile domanda, mette in dubbio la nostra propria esistenza, la nostra stessa realtà umana, la nostra America meticcia, come la definì Martí, il più grande pensatore, scrittore e poeta e uno dei più avanzati rivoluzionari dei nuovo mondo, premonitore della drammatica valanga imperialista in America del nord dove visse (New York) per 17 anni.

"Vivi nel mostro e ne conosci il contenuto", una sua grande frase.

La penna di José Martí scrisse tutto il buono dei nordarnericani e tutto il male visto dai suoi occhi in quel periodo e trovò un appetito di espansione che non si aspettava.

Martí definiva "settimini" i latinoamericani ed in particolare i cubani che tengono la mente in Europa e si credono europei, dimenticando le proprie radici e vivendo fuori dal tempo.

Devo subito chiarire che Martí non rifiutava la cultura europea, al contrario inneggiò ad essa ed arricchì con i suoi scritti la lingua spagnola di tutti quei termini che l'uomo spagnolo aveva appreso nelle Americhe. I naviganti giunti nel Nuovo Mondo, infatti, non avevano idea di determinati nomi, non conoscevano i sostantivi per indicare cose che fino a quel momento non conoscevano.

Martí diceva:

"Solo ai settimini manca il valore, quelli non hanno fede nella propria terra, sono uomini di sette mesi e ciò che è peggio è che questo valore lo negano agli altri. Hanno braccia con unghie macchiate e fasciate, braccia che non riescono a raggiungere la spalla, braccia che appartengono a Madrid o a Parigi. C'è da caricarli su una barca, questi insetti dannosi e mandarli via, rodono l'osso alla patria che li ha nutriti".

Annotò Retamar sul suo libro Calibán, in riferimento al mondo coloniale di allora:

"... esiste nel mondo coloniale, nel pianeta, un caso speciale: una vasta zona per la quale il meticcio non è un incidente ma l'essenza, la linea centrale, siamo noi, la nostra America meticcia".

Martí, che tanto meravigliosamente conosceva l'idioma, usò questo preciso aggettivo "come il segnale distintivo della nostra cultura", una cultura di discendenti aborigeni, di africani, di europei, etnicamente e culturalmente parlando.

Nella sua Carta de Jamaica (1815), il liberatore Simón Bolívar aveva proclamato:

"Noi siamo un piccolo genere umano; possediamo un mondo a parte, circondato da un ampio mare, nuovo nel caso delle arti e della scienza".

E nel Congresso di Angostura (1819) aggiunse:

"Teniamo conto che il popolo non è quello europeo, né quello del Nordamerica, ma un composto di Africa e di America, più che una emancipazione dell'Europa, poiché la Spagna stessa ha lasciato di essere europea per il suo sangue africano, le sue istituzioni e per il suo carattere. È impossibile stabilire con precisione a quale famiglia umana apparteniamo. La maggior parte degli indigeni è stata annientata (mediante il genocidio e l'etnocidio dei colonizzatori spagnoli in Cuba e in gran parte delle Antille); l'europeo si è mescolato con l'americano e con l'africano, questo si è mescolato con l'indio e con l'europeo. Tutti nati dal seno della stessa madre, i nostri padri, differenti in origine e nel sangue, sono stranieri e tutti differiscono visibilmente nella pelle; questa dissomiglianza porta una penitenza di grande importanza".

Nel 1971 Fidel Castro, riferendosi al gigante del Nordamerica, rispetto a Cuba e al resto dell'America, disse:

"... essere creolo, essere meticcio, essere negro, essere semplicemente latinoamericano, è per loro un disprezzo".

Cominciamo dall'inizio. Arrivarono i navigatori spagnoli alle Antille, calpestarono il suolo dell'isola che oggi conosciamo come Cuba, la quale ebbe vari nomi, incluso Juana, in onore della figlia del Re di Spagna. Colombo e gli indios si conobbero, Colombo, sbagliando, pensava di trovarsi in Giappone e iniziò la tragedia della conquista e della colonizzazione. Ai conquistadores bastarono poche decine di anni per sterminare gli indios, al rogo come il ribelle Hatuey o a bastonate quelli costretti a cercare un oro che non c'era o con malattie trasmesse dal brutale colonizzatore.

Fray Bartolomé de las Casas, il difensore degli indiosUn monaco difese gli indios di questa terra, il suo nome era Fray Bartolomé de las Casas. Propose al Regno di introdurre negri portati dall'Africa, per fare il lavoro degli indios decimati. Anni dopo, come un buon cristiano, si pentì di aver proposto la schiavitù del negro in questo continente recentemente scoperto dall'Europa.

Gli spagnoli arrivarono nell'isola a ondate durante i secoli e nei primi tempi arrivarono soli, senza donne. Le loro donne erano le schiave africane. Da quest'unione nacquero gli schiavi creoli, neri o mulatti, frutto del meticciato.

Il creolo bianco, andando avanti negli anni, ebbe i suoi schiavi negri. Il regime schiavista era un fatto ammesso e santificato: si impose. I creoli e i creoli bianchi consideravano vile il lavoro: era una cosa da schiavi, da negri, per loro non era una cosa onorabile e degna.

Pure gli spagnoli, già nobili e ricchi, la pensavano in questo modo. Le composizioni e le interpretazioni musicali, fossero con il tamburo, con il violino, l'arpa o altri strumenti, perfino con il pianoforte erano lavori che dovevano fare i neri e i mulatti liberi. Gli schiavi in determinate circostanze potevano comprare la propria libertà come atto di carità concesso da alcuni padroni.

Ci furono pure schiavi o discendenti di schiavi liberi che cucinavano e facevano dolci molto raffinati, costruivano le fortezze, le chiese e i palazzi, lavoravano la terra, coltivavano la canna da zucchero, estraevano il minerale e lo lavoravano, confezionavano i vestiti dei padroni e i bambini negri servivano come gioco per i bambini bianchi.

Per questi motivi, quindi, la cultura sin dall'inizio fu una cultura meticcia. Le cuoche negre o mulatte preparavano i menù a gusto loro, anche se la ricetta era dettata dai padroni, i quali sin da piccoli si abituavano a questo gusto. Siccome le signore non davano il latte ai propri figli, temendo che i propri seni diventassero brutti, cercarono le negre o le mulatte affinché allattassero i propri figli, in preferenza negre che avevano già partorito. Questo fu il primo e il più persistente degli odori che sentivano i bambini (padroncini), quello del seno delle loro mamme da latte.

Furono negre e mulatte le donne con le quali veniva "svezzato" il padroncino perché allora non esisteva la libertà di fare l'amore né vi erano pregiudizi sessuali o sociali come esistono oggi.

Quando gli inglesi svilupparono la rivoluzione industriale, considerarono che la schiavitù del negro cubano era impropria e lottarono per l'abolizione della tratta degli schiavi o del commercio negriero, contro la Spagna.

Quasi un secolo e mezzo fa iniziò l'importazione di cinesi verso Cuba, una schiavitù nascosta. Ci fu un'altra mescolanza soprattutto tra cinesi e negri. Anche i bianchi poveri si accoppiarono ai cinesi, ma non fu un fenomeno grande ed esteso come nelle altre radici principali, quella ispanica e africana.

I cinesi lasciarono la propria traccia culturale, ma è molto difficile a distinguersi a causa del loro carattere ermetico.

Questa isola dei Caraibi ha inoltre, nel suo insieme culturale e razziale, la presenza francese, poiché dopo la rivoluzione ad Haiti decine di migliaia di francesi si sono rifugiati a Cuba fermandosi soprattutto nella regione orientale dell'isola: Santiago de Cuba, Guantanamo, Matanzas, Cienfuegos e in minor numero nella provincia di Pinar del Río.

Questi emigranti hanno lasciato molti elementi culturali, dall'introduzione della coltivazione del caffè nelle montagne orientali, allo sviluppo di importanti tecniche agricole oltre alla realizzazione di molte strade di montagna. Assieme ai coloni francesi bianchi è venuta la servitù haitiana con la propria musica e religione sincretica. La religione sincretica a Cuba in generale è una delle manifestazioni più impressionanti della mescolanza culturale che lasciò uno stampo particolare, poiché queste religioni non sono le autentiche africane.

L'alchimia, che iniziò a plasmarsi nel 1492, giunge ai nostri giorni e fa parte di quella che noi chiamiamo la "cultura cubana meticcia", che è costituita dal modo di essere del cubano, di vedere il mondo, di sentire, di camminare, di fare la musica, di comportarsi, dal carattere, dalla proiezione, perché il cubano sa apprendere dagli altri e in una metamorfosi naturale digerire quello che ha appreso e farne un prodotto proprio.

José Martí lo avrebbe detto in questa maniera:

"Che venga inserito nella nostra Repubblica tutto il mondo, ma il tronco deve essere quello della nostra Repubblica".

Lui stesso scrisse:

"Né il libro europeo, né il libro yankee, danno la chiave dell'enigma ispano-americano".

Chi mise insieme al cubano in una nazione, una massa così compatta, fatta di tante differenze?

Il 10 ottobre 1868 un ricco proprietario di schiavi, creolo, celebre avvocato di nome Carlos Manuel de Céspedes suonò la campana della propria azienda dove si produceva lo zucchero, per chiamare a raccolta gli schiavi. Quando questi arrivarono gli diede solennemente la libertà.

Céspedes, da noi chiamato padre della Patria, convocò i suoi vecchi schiavi, ormai uomini liberi e li invitò a conquistare con lui e con altri patrioti la libertà di tutti i cubani, di Cuba.

Gli schiavi si unirono a lui formando così l'esercito liberatore. Quella guerra contro il colonialismo spagnolo durò 10 anni e nel campo di battaglia, tra fuoco e sangue, si è fusa la nazionalità cubana. In questa guerra vi furono generali neri, mulatti e bianchi di enorme prestigio.

La vittoria fu frodata, poiché Céspedes era morto in combattimento, come il giovane ricco Ignacio Agramonte che nella provincia vicina seguì le sue orme.

Ci fu un patto svantaggioso o meglio pieno di disonore con il nemico, ma tutti gli abitanti dell'isola si consideravano cubani: fu questa la prima vittoria.

Non furono cancellati i pregiudizi razziali e sociali soprattutto nelle classi più agiate. Anche se qualcuno diceva:

"Che cosa ci possiamo aspettare dopo 400 anni di schiavitù?"

Quell'accordo, chiamato Patto di Zanjon, dal posto dove si firmò, fu contestato dal Generale Antonio Maceo Grajales, un mulatto molto intelligente, figlio di una famiglia di grandi combattenti.

Questa contestazione fu chiamata "Protesta di Baraguá" per il posto dove fu pronunciata.

Per i cubani di oggi Baraguá significa disconformità dinanzi all'imposizione e azione risoluta contro ogni tipo di ingerenza.

Martí e Maceo erano già morti in combattimento (nel 1895 e nel 1896 rispettivamente) quando i Nordamericani si autoaggredirono facendo esplodere una propria nave nella Baia de La Habana per intervenire nella guerra di Cuba, già praticamente vinta dall'esercito liberatore.

Cuba si salvò dall'essere assimilata totalmente come accadde con le Filippine perché aveva una cultura politica nata a colpi di cannone sui campi di battaglia. In una lettera scritta e inviata durante la guerra al suo amico Manuel Mercado, considerata una sorta di testamento politico, José Martí dice:

"... lo sono e mi trovo già tutti i giorni in pericolo di dare la vita per il mio paese e per il mio dovere, poiché quello intendo, e ho il coraggio con cui realizzarlo, per impedire in tempo con l'indipendenza di Cuba che si estendano gli Stati Uniti per tutte le Antille e che con la loro forza cadano sulle nostre terre d'America. Quanto ho fatto fino ad oggi e farò nel futuro è proprio per questo".

Cuba e i cubani antiannessionisti si rifanno allo stesso pensiero di Martí. Questo spiega perché il Dr. Fidel Castro, nella sua autodifesa per l'assalto alla caserma Moncada, disse che l'autore intellettuale dell'assalto a questa fortezza il 26 luglio 1953 era José Martí.


Testo tratto da FRANCESCO VESPOLI, Incontri cubani. Personaggi e interpreti della cultura di oggi (Calimera, Essenziale, 1998, pp. 184-189). Fonte: Marta Rojas, Y lo llamaron una vez utopista


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