Cuba

Una identità in movimento


Profilo dell'identità nazionale cubana (Parte III)

Alessandra Riccio


Il gap culturale

Ora il cubano si trova di fronte ad una cultura e ad un mondo nuovi; la spregiudicatezza ed il pragmatismo yankee ricacciano visionarietà e sentimentalismo — le doti di José Martí — nella sfera del sottosviluppo; in breve tempo l'isola è invasa da un nuovo sapere, efficiente, tecnologico, pratico. Poco a poco la borghesia cubana va cedendo nelle mani straniere tutte le fonti di produzione del paese finché

"... lo zucchero nordamericano comandò a Cuba e il suo prezzo ebbe più importanza delle costituzioni politiche, come se tutto il territorio nostro fosse un immenso zuccherificio e Cuba solo il nome simbolico di una grande fabbrica dominata da una corporazione straniera di azionisti senza nome48.

L'identità appena intravista e perseguita nei trent'anni delle guerre d'indipendenza, evapora e scompare nell'euforia del nuovo stile di vita e nella danza dei milioni. Mentre l'Europa veniva lacerata dal primo conflitto mondiale, Cuba si abbandonava al relajo, ai piaceri dell'immediato e con allegra incoscienza dilapidava la sua unica ricchezza, lo zucchero, e il suo incipiente e fragile patrimonio culturale.

I primi trent'anni del secolo si possono riassumere in una grottesca caricatura della democrazia; presidenti fantoccio si succedono al potere in una farsesca imitazione delle competizioni elettorali décimas[49].

Liberali e conservatori, José Miguel Gómez o Menocal non fanno differenza, ciò che conta è pasarla bien, avere la vita facile. Sembra quasi che il cubano frastornato dagli avvenimenti non previsti, incerto sull'avvenire, confuso dal gioco degli Stati Uniti da cui si sente attratto in larga parte anche per evidenti ragioni di storia e cultura, si rifugi in un mimetismo tattico: ha bisogno di ripensare se stesso e di adattarsi ad una realtà nuova. L'indipendenza ha liquidato i conti con il passato, peraltro già obsoleto, ma non ha fornito gli strumenti per affrontare il presente e programmare il futuro.


Fra passato e futuro

L'indipendenza di Cuba liquida in un momento solo colonia e monarchia, sfruttamento e assolutismo. Col nuovo secolo, Cuba deve inventarsi totalmente: ha rifiutato il passato ed ha di fronte l'abisso del futuro. L'intervento nordamericano sembra colmare un vuoto, ma in realtà relega ancora di più l'isola a quella funzione terziaria e di dipendenza che le era stata imposta dagli spagnoli. La reazione mimetica e scettica, il "tira a campare" di quegli anni in cui tutto, anche la protesta dei negri[50] era scivolata come acqua sull'olio, vennero interpretati come segni di in priorità . Una volta per sempre il cubano, questa entità informe, veniva definito attraverso una serie di connotazioni di segno negativo d'altronde già presenti in un documento di notevole cinismo. In una lettera del 1897 al Tenente Generale Nelson A. Miles, il Sottosegretario alla guerra degli Stati Uniti, J.C. Brekenridge, scrive a proposito di Cuba:

"I suoi abitanti sono, in generale, indolenti e apatici (...). Il popolo è indifferente in materia di religione e pertanto nella grande maggioranza è immorale, ed è pure di vive passioni, molto sensuale; e poiché non possiede se non vaghe nozioni di ciò che è giusto, è propenso a procurarsi i godimenti non attraverso il lavoro, ma per mezzo della violenza; e come risultato di questa mancanza di moralità, disprezza la vita"[51].

L'accento con cui qui si parla dei cubani è ben diverso da quello usato da Colombo. Eppure, come Colombo aveva tutto l'interesse a far coincidere la verità con l'immagine utopica che la cultura della sua epoca esigeva, così gli Stati Uniti d'America inventano il sottosviluppo e di conseguenza la necessità di tutelare i popoli sottosviluppati, forti anche della fama duramente conquistata durante l'indipendenza e la guerra di secessione di essere un popolo amante della libertà sopra ogni altra cosa. Abramo Lincoln ed il presidente Monroe, con le loro figure ed il loro esempio, avevano contribuito a creare nei popoli dell'America tutta, questa immagine generosa di garante dei diritti umani nel continente.

Lo sforzo che ha significato il conseguimento dell'indipendenza, la frustrazione conseguente all'ingerenza yankee che vanificava anni di lotta, sembrano avere esaurito le energie del cubano della generazione della Repubblica:

"Cuba libera fu per noi che costituivamo la prima generazione intellettuale cubana — mentalmente adulta verso il 1910 — come un risvegliarsi per morire, come un salto nel vuoto (...). Eravamo un pugno di semi al vento (...). Non possiamo negare il nostro fiasco collettivo, la nostra sconfitta davanti alla frana che ci venne addosso"[52].


La ricerca della dignità

A tirar fuori nuovamente quel sentimento di dignità di cui tanto aveva parlato José Martí, è un gruppo di intellettuali, il Grupo minorista, riunito poi intorno alla Revista de Avance. Il primo gesto pubblico del gruppo fu la cosiddetta Protesta de los trece (18 maggio del 1923), in cui, con parole di Juan Marinello, per la prima volta si nota

"... un atteggiamento diverso, nuovo, negli intellettuali cubani, che fino ad allora non avevano espresso direttamente e militantemente, con rischio personale, la propria difformità rispetto alla corruzione amministrativa"[53].

Ma non è solo la dignità del cubano che preoccupa i "tredici" in una famosa Dichiarazione, il Gruppo minorista, fra l'altro, si schiera "contro le dittature politiche unipersonali, nel mondo, in America, a Cuba" e "per la cordialità e l'unione latinoamericana"[54]. Pur con tutti i suoi limiti, il Gruppo minorista, soprattutto attraverso le pagine della Revista de Avance[55] si collocava apertamente in un'area di militanza e con queste credenziali si presentava ai colleghi latinoamericani ma soprattutto, e con grande sorpresa, al popolo cubano che si vedeva obbligato a prendere coscienza della realtà del paese. Varie volte arrestati e processati per attività comuniste, spaccati all'interno da scelte politiche diverse, i minorísti cessarono le pubblicazioni nel Trenta, dopo l'arresto di Marinello e quando la dittatura di Gerardo Machado non lasciava più spazio all'avanguardia né alle discussioni letterarie. Rubén Martínez Villena riassunse assai bene l'urgenza di quegli anni:

"Io distruggo i miei versi, li disprezzo, li regalo, li dimentico: mi interessano tanto come alla maggior parte degli scrittori interessa la giustizia sociale"[56].

Raúl Roa così riassumeva nel novembre del 1931 il compito degli intellettuali contro la brutalità della dittatatura di Machado in una polemica, poi diventata famosa, con Jorge Mañach:

"L'intellettuale, per la sua condizione di uomo dotato per vedere più in profondo e più lontano degli altri, è obbligato a fare politica. Politica realista, di critica e denuncia costanti, rivoluzionaria, senza compromessi né alleanze sia pure transitorie con il potere borghese, sottomesso, a Cuba, all'imperialismo, né con le fazioni pseudopolitiche che brigano per assaltarlo, senza altro fine se non quello di arricchirsi sfrenatamente a spese della fame e della disperazione del popolo"[57].


Il ruolo degli studenti

Questo era l'atteggiamento di un gruppo di intellettuali e, certamente, di buona parte degli studenti dell'Università dell'Avana che sempre più andava assumendo il ruolo di ultimo baluardo della dignità del paese, specie dopo che un fallito colpo di stato organizzato dall'ex presidente Mendieta aveva liquidato una volta per tutte la speranza che i veterani della guerra d'indipendenza potessero in qualche modo riprendere il discorso avviato da Martí e portarlo a compimento. Lo storico Hugh Thomas così commenta quel periodo:

"C'era fiducia solamente in quello che un osservatore del tempo definì come l'inevitabile fatalismo determinato dall'emendamento Platt, il desiderio di affidare la soluzione dei problemi cubani nelle mani degli stranieri. Tuttavia gli studenti continuavano a parlare di una rivolta delle masse contro l'imperialismo yankee ed il boia Machado"[58].

Per sottolineare l'urgenza dei tempi essi ripetevano uno slogan mayacovskiano, la parola al compagno Mauser, e si lanciavano nella battaglia politica a tempo pieno. Del resto, nel 1925, quando Machado venne eletto Presidente, proprio uno studente, Julio Antonio Mella, con il vecchio Carlos Baliño, aveva fondato il partito comunista cubano ed insieme al minorista José Tallet aveva dato avvio all'Università Popolare José Martí.

Accanto alle battaglie di massa e alle rivolte popolari, la recente storia di Cuba ha visto in prima linea in funzione di avanguardia gli studenti, convinti di dover esercitare il diritto/dovere di fungere da voce della coscienza della nazione. Gli anni venti videro crescere e consolidarsi il movimento studentesco che giunse a condizionare le scelte della classe dirigente. Pur nella confusione e nelle spaccature che la caratterizzarono, la forza studentesca risiedeva nella capacità di mobilitare ideologicamente e, attraverso manifesti, proclami e polemiche, di non passare sotto silenzio nulla di quanto avveniva nel palazzo, anzi denunciarne gli inganni e smascherare i trabocchetti.

Quando nel 1933 la rivolta dei sergenti capeggiata da Fulgencio Batista obbligò Machado a fuggire[59], gli studenti sedettero al tavolo delle trattative ed imposero l'elezione a presidente del generoso ma inadeguato professor Grau. In poco più di un decennio di lotte, gli studenti cubani erano riusciti a strappare conquiste assai qualificanti che andavano dal rispetto dell'autonomia dell'Università — sia pure nel ristretto ambito del suo recinto —, al privilegio di sedere al tavolo delle trattative per la formazione del Gabinetto. Non riuscirono, però, a trovare un'unità di intenti e si fecero comprare, poco a poco, dal potere vero. Col vecchio sistema del divide et impera, i vari capi furono sistemati in diversi incarichi o vennero divisi in bande a secondo dell'ideologia e scivolarono poco a poco verso forme di vero e proprio gangsterismo. Fidel Castro, che visse da vicino come segretario della Federazione degli studenti gli avvenimenti di quegli anni, commentò poi:

"Coloro che vedevano i loro compagni assassinati volevano vendicarli, ed un regime che non sapeva imporre la giustizia permetteva la vendetta. La colpa non era di quei giovani che, sviati dalle loro naturali preoccupazioni e dalla leggenda di un'epoca eroica, vollero fare una rivoluzione che non era stata compiuta nel momento in cui la si poteva fare. Molti di coloro che, vittime della illusione, morirono da gangsters, oggi sarebbero eroi"[60].

Anche per il movimento degli studenti si ripeteva fatalmente quella frustrazione degli ideali di partenza che sembrava essere diventata una caratteristica della Cuba indipendente. A nessuno sfuggiva che, dietro, queste successive frustrazioni, c'era sempre il Governo degli Stati Uniti e la sua politica imperialista, pure erano tanti e così diversi gli elementi di confusione che per un momento la figura di Batista, sempre dietro il potere anche se non sempre direttamente al potere, poté essere scambiata per quella di un leader nazional-popolare in qualche modo utile al paese. L'opposizione strenua che gli dedicò il giovane e brillante ex-ministro Guiteras, anch'egli proveniente dalle file del movimento studentesco, si radicalizzò nel movimento Joven Cuba che andò ad accrescere il numero delle bande o gruppi d'azione che spesso operavano l'uno contro l'altro. Il professar Grau, il cui Gabinetto non ebbe mai il riconoscimento degli Stati Uniti, fondò dall'esilio di Miami il Partito autentico che si richiamava al programma martiano, mentre Martínez Villena, anche lui proveniente dalle file dell'Università, dirigeva il Partito comunista dopo l'esilio di Julio Antonio Mella.

Il disordine politico degli anni trenta, le rivalità e opposizione delle bande, l'ingerenza straniera non poterono evitare che si arrivasse, nel febbraio del 1940, alla promulgazione di una Costituzione che si ispirava in gran parte a quella della Repubblica di Weimar del 1920 e a quella spagnola del 1931[61]. Non fu un caso che questo documento, fondamentale per la vita democratica del paese, venisse approntato ed approvato durante il Governo Grau che, appunto, era stato il presidente sostenuto ed appoggiato dagli studenti.


Una nuova frustrazione

Se è vero che la frustrazione appare come una costante nel cammino di ricerca di una identità nazionale, nessun momento, forse, fu tanto frustrante come gli anni che vanno dalla firma della Costituzione, forse il più bel prodotto del lavoro intellettuale collettivo del decennio precedente, al secondo golpe di Batista nel 1952 con cui l'ex sergente pretese di fare piazza pulita, in un solo momento, di studenti e partito comunista, di autentici ed ortodossi, per instaurare quella che egli stesso definì la dittatura sua e del popolo.

La guerra di Spagna aveva destato una eco drammatica nella coscienza dei cubani che scoprivano nella lotta antifascista dei repubblicani l'altra faccia di quell'impero oppressore: non la Spagna, ma il potere — quel tipo di potere aveva determinato la colonia e lo sfruttamento.

Era dunque necessario essere presenti al fronte, fare sentire la solidarietà cubana: Pablo de la Torriente Brau, l'eroico studente delle lotte del 1927, muore a Majadahonda combattendo contro i franchisti; Juan Marinello, Alejo Carpentier e Nicolás Guillén sono presenti al Secondo Congresso degli Scrittori Antifascisti.

La guerra mondiale, come già era avvenuto durante il primo conflitto, portò a Cuba uno straordinario benessere economico che, se in parte rallentò le tensioni politiche, favori però gli arricchimenti facili, i commerci illeciti, il dilagare della corruzione. Invano Eddy Chibás, il fondatore del Partito ortodosso, anch'egli proveniente dalle file del Directorío Estudiantil del 1927, tenta di moralizzare il paese agitando lo slogan vergüenza contra dinero — dignità contro denaro —, invano questo intellettuale romantico, convinto fino in fondo dell'urgenza di recuperare nel cubano il senso della dignità e dell'autostima, ricorre all'estremo, plateale strumento di un suicidio pubblico: di fronte all'eventualità di un successo degli ortodossi, Batista si impossessa manu militari del potere (1952). I sei anni e mezzo della sua dittatura esasperano la contrapposizione tra un asservimento agli Stati Uniti, ormai padroni di tutta l'economia cubana, ed una disordinata ma non confusa aspirazione ad una propria cultura ed espressione nel senso più ampio dei termini. Spopolata dei suoi intellettuale, quasi tutti all'estero, espropriata fisicamente di grosse fette del territorio venduto a potenti compagnie nordamericane, ricattata dall'ingaggio di mano d'opera a basso costo proveniente da zone depresse come la Giamaica, l'isola di Cuba si trasforma apparentemente in una sterminata casa da gioco, nel postribolo dei Caraibi, asservita tutta al giogo economico degli Stati Uniti. Pure, la secolare tradizione di clandestinità farà rimettere in moto la macchina della ribellione a cui dà la prima spinta il giovane avvocato Fidel Castro con una denuncia alla magistratura per la violazione dei diritti costituzionali operata dal golpe di Batista. La tempestiva denuncia pubblica del giovane avvocato non sortisce alcun effetto pratico, eppure questa sortita legalitaria e chisciottesca, quest'appello all'onestà della magistratura ed alla inviolabilità della costituzione che fu il frutto di tante e complesse battaglie, è indice di una condotta costante. Non è la prima volta che la storia di Cuba si scrive a partire dai no che le istanze popolari ricevono. Non è un senso indistinto di rivolta quello che ha animato i diversi fuochi di lotta ma piuttosto l'impossibilità di far sentire la propria voce; il bisogno vitale di non sentirsi negati, ma di essere, di autoaffermarsi, ha condotto agli esiti storici che sappiamo.

Inascoltato l'appello a difendere i diritti costituzionali, non resta che la via della lotta armata, anche se la disgregazione politica degli anni quaranta ed i successivi avvenimenti hanno praticamente ridotto a zero le capacità organizzative e di resistenza dei partiti politici. Non basta: compromessi tutti con i precedenti, fallimentari governi, colpiti tutti dal sospetto di corruzione, morto Chibás che aveva portato la speranza di una politica onesta, i partiti non sono più in grado di aggregare consensi. La stanchezza dell'opinione pubblica si riassume nella fase con cui una parte non minoritaria dei cubani accolse Batista: Este es el bombre. La tentazione di delegare agli altri la battaglia politica, frutto di uno storico complesso d'inferiorità, rispunta ora accompagnata da una sorta di rassegnazione suicida.


Trasformare la sconfitta in vittoria

Lo stato di polizia con cui Batista mantiene un falso ordine nell'isola, non è sufficiente a dissuadere uomini come Fidel Castro ad organizzare una azione armata contro il regime: nella città di Artemisia, una piccola località prossima alla capitale, viene organizzato l'attacco alla Caserma Moncada di Santiago di Cuba. È veramente sorprendente il fatto che un gruppo assai eterogeneo di giovani — nella maggioranza operai ed artigiani — abbiano potuto esercitarsi al tiro, rifornirsi di armi e di divise della polizia di Batista, spostarsi da Occidente ad Oriente, riunirsi per gli accordi finali nella minuscola casetta di Siboney, guidati da un capo pubblicamente conosciuto come oppositore del regime e per di più sposato da pochi anni con la sorella di un ministro di Batista senza destare sospetti. Solo una lunga abitudine al segreto ed alla clandestinità può spiegare come centosessanta uomini abbiano potuto aggregarsi e dare vita ad un'impresa che fu veramente fondatrice e mitica. Infatti, l'assalto alla Moncada non fu mai nelle intenzioni dei partecipanti un gesto puramente dimostrativo: l'azione ebbe invece, fin dal principio, un collegamento esplicito all'ideario di José Martí di cui nel 1953 ricorreva il centenario della nascita; si appoggiava su un preciso programma politico; difendeva le irrinunciabile conquiste della costituzione del quaranta, ma soprattutto voleva essere esempio di abnegazione e di coraggio, voleva significare, con la forza dell'evidenza, che il cubano aveva intelligenza e capacità per dirigere la propria storia anziché patirla. L'operazione alla caserma di Santiago — un'altra si svolse contro quella di Bayamo — aveva poche possibilità di riuscita, ed anche se nessuno poteva immaginare il massacro che ne sarebbe seguito, c'era in tutti i centosessanta partecipanti la consapevolezza della sconfitta. Tuttavia essi davano all'azione militare un valore simbolico che i fatti che seguirono fecero crescere fino a fare della Moncada il mito della riscossa[62].

Non impropriamente, dunque, la lunga autodifesa che Castro pronunciò davanti al Tribunale di Santiago in condizioni di flagrante violazione dei diritti dell'imputato, seppure politicamente imprecisa ed eccessivamente idealista, costituisce uno dei documenti dell'ídentità culturale cubana, così come lo era stato il Manifesto di Montecristi. La storia mi assolverà rivendicava il diritto a pretendere di vedere realizzati i sogni della prima guerra d'indipendenza e soprattutto documentava l'immagine possibile di un paese e dei suoi abitanti cui una lunga storia di negazioni aveva impedito di essere:

"... in questo giudizio si sta mettendo in discussione qualcosa di più che la semplice libertà di un individuo: si discute su questioni fondamentali di principio, si giudica il diritto degli uomini ad essere liberi, si dibatte sulle basi minime della nostra esistenza come nazione civile e democratica".

Fidel Castro aggiungeva anche, con la puntigliosa dialettica che caratterizza i suoi discorsi:

"Intendiamo per popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa irredenta a cui tutti offrono e che tutti ingannano e tradiscono, quella che anela una patria migliore, più giusta e più degna; quella che è mossa da un'ansia ancestrale di giustizia perché ha sorretto l'ingiustizia e la burla generazione dopo generazione, quella che aspira a grandi e sagge trasformazioni ed è disposta a dare, per ottenere ciò, quando crede in qualcosa o in qualcuno, soprattutto quando crede sufficientemente in se stessa, fino all'ultima goccia di sangue"[63].

E concludeva citando José Martí, l'autore intellettuale dell'assalto alla Moncada, le cui parole e le cui opere costituivano l'unico corpo culturale su cui appoggiare la rivendicazione della dignità di un popolo oppresso:

"Un uomo che si adatta a leggi ingiuste e permette che calpestino la terra in cui è nato quegli stessi uomini che gliela maltrattano, non è un uomo degno. Nel mondo ci deve essere una certa quantità di dignità così come ci deve essere una certa quantità di luce. Quando ci sono molti uomini senza dignità, ce ne sono sempre altri che racchiudono in sé la dignità di molti uomini".

E questa dignità intendevano incarnare gli uomini della Moncada, tanto i numerosi morti che i pochi superstiti, i quali cominciarono immediatamente a ritessere le fila dell'organizzazione, potendo ormai contare sull'impatto che aveva prodotto sull'opinione pubblica la sanguinosa conclusione dell'attacco alla caserma e soprattutto l'appassionata difesa di Castro che circolava clandestina per tutta l'isola. Quel documento testimoniava l'esistenza di un piccolo gruppo di uomini che si faceva carico di rappresentare "la dignità di molti uomini".

Per questa ragione, in un momento di massima disgregazione del paese, quando ancora non era altro che un movimento privo di strutture e di rigidità battezzato col nome di "26 luglio" — la data dell'attacco alla Moncada —, esso riuscì ad aggregare militanti e sostenitori in tutte le sfere sociali e in tutte le zone geografiche dell'isola e la forte pressione popolare che si creò, consentì la liberazione di Castro, il quale, dal Messico dove era andato in esilio, ricominciò immediatamente a minacciare Batista.


Il pragmatismo

In realtà Castro aveva disseppellito la martiana fionda di David e si accingeva ad abbattere il tiranno con più fede che mezzi. Infatti, se centosessanta uomini non erano bastati ad occupare la caserma Moncada, era veramente folle pensare che ottanta uomini potessero invadere l'isola di Cuba e sconfiggere Batista. Pure, la temerarietà del progetto e la scarsezza di mezzi non diminuirono l'entusiasmo dei partecipanti alla spedizione né dei sostenitori che frattanto preparavano a terra l'appoggio allo sbarco. Per rendere ancora più temerario il piano, Castro aveva arrogantemente e pubblicamente avvisato Batista dell'imminente "invasione". Il messaggio, non serviva tanto da avvertimento al tiranno quanto a rassicurare i cubani che la dignità, la vergüenza, non potevano permettere il perpetuarsi dell'odiata tirannia.

Se non si coglie questa caparbia ed ostinata volontà di appropriarsi della propria immagine nazionale tale quale ogni cubano aveva potuto intravedere nei miti e nelle leggende delle guerre di indipendenza, non si riuscirà ad intendere come e perché, scampati a stento dalla strage che fa seguito allo sbarco del Granma, un esiguo gruppo di meno di venti uomini, esausti e mal armati, riesce a tessere quella trama di resistenza e di lotta che porterà all'abbattimento della tirannia ed al trionfo della Rivoluzione.

Di tutte queste cose si rese conto il giornalista nordamericano H.L. Matthews a cui capitò di intervistare Castro nella Sierra Maestra quando giornali e televisione avevano annunciato la morte di questo ennesimo cabecilla dell'ennesima rivoluzione in una delle tante repubbliche centroamericane. Matthews si sentì in dovere di giustificare davanti all'opinione pubblica del proprio paese il fatto di essersi trovato ad essere il testimone dell'esistenza di Castro e della sua guerriglia, ma lo fece in toni stranamente esaltati per un giornalista esperto e scettico, quale egli era; il fatto è che Matthews si era reso conto di stare assistendo ad un fenomeno che affondava solide radici nel terreno della cubanità e non ebbe difficoltà ad ammettere di essere stato un puro strumento della creazione di un mito:

"Per il popolo cubano Fidel era un mito, una leggenda, una speranza: non una realtà. Egli doveva venire alla vita, incarnarsi (...). Io non feci altro che constatare questi fatti e riconoscerli; con la mia intervista lo portai alla ribalta dell'attenzione e da allora egli ha tenuto la scena da protagonista: ma tale era il ruolo che gli era stato destinato (...). La logica stava dalla parte del Generale Batista, della classe dirigente cubana, dell'ambasciatore americano Gardner, del Dipartimento di Stato del Pentagono. La storia, Fidel Castro e il popolo cubano stavano dall'altra parte"[64].

Nel suo libro che è documento, confessione e giustificazione, Matthews mette il popolo, Castro e la storia sullo stesso piatto della, bilancia. È da questo punto di vista, infatti, che si riesce a cogliere la continuità nella storia dell'isola. È da questo punto di vista che si intravede la gestazione faticosa di un modo d'essere, di una identità che è tutta culturale, che nasce dai fatti rivisitati dall'intelligenza, dato che né la tradizione, né le etnie — di per sé — possono costituire identità in una scacchiera composita come quella cubana. Il poeta Nicolás Guillén, anni dopo, commentava:

"Lungo tutto questo tempo passato, che va dall'instaurazione della Repubblica Bugiarda del 1902 fino allo scoppio della Moncada, non abbiamo fatto altro che costruire il tempo futuro, il tempo a venire, carico di speranze, esplosivo infine di realtà"[65].

Laddove l'unico segno indiscutibile e ripetuto è quello della negazione, è necessario un grande sforzo culturale per inventare la cubanità. Non spagnolo né negro né indio, non ricco e non povero, non isolano e non continentale, il cubano — per essere — ha dovuto cercare il proprio segno positivo nei momenti di aggregazione ad un progetto comune: l'indipendenza, la rivoluzione[66]. E se una lunga storia di frustrazioni aveva condotto alla disistima ed allo scetticismo, Cuba sta oggi tentando di consolidare un necessario processo di autostima sul quale si potrà costruire il possibile futuro dell'isola. Abbiamo fin qui assistito alla nascita di una nazione che, proprio perché impegnata a venire a luce, si è servita dell'immaginazione e della visionarietà; ha creato i suoi miti e le sue leggende con la consapevolezza che solo se essi riusciranno a costituire solidi punti di riferimento a cui rivolgere lo sguardo per trovare la propria immagine, il processo di ricerca di identità culturale del cubano potrà dirsi concluso.

In questo senso, i materiali della storia e quelli della cultura lavorano insieme alla fondazione della cubanità perché conservano una valenza collettiva e corale in cui difficilmente il gesto di uno solo, l'opera di un solo autore, hanno senso se estrapolati da un contesto che — viceversa — lo giustifica e lo incorpora fino a darci questa sintesi, questa unità complessa che è la Cuba di oggi.



Tratto da:

Latinoamerica. Analisi, testi, dibattiti,
Roma, Anno VIII, n. 26, aprile-giugno 1987, pp. 19-27


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Note

[48] Fernando Ortiz, Contrapunteo..., cit.
[49] Forse la più famosa di queste décimas è la celebre Chambelona di cui riproduco il testo: Aspiazu me dio botella / y yo voté por Varona / aé aé aé / aé la Chambelona. / Yo no tengo la culpita / ni tampoco la culpona / aé aé aé / aé la Chambelona. / Nosotros los liberales / Nos comimos la lechona.
[50] Hortensia Pichardo, Documentos..., cit., Vol. 11, p. 367. Si veda anche Hugh Thomas, op. cit., p. 362.
[51] Hortensia Pichardo, ivi, Vol. I, p. 513. Il documento continua: "È chiaro che l'annessione immediata alla nostra Federazione di elementi così perturbatori, e in così gran numero, sarebbe una pazzia, e prima di proporla dobbiamo risanare ci questo paese, anche se se dovremo applicare il mezzo che la Divina Provvidenza applicò a Sodoma e Gomorra".
[52] In Julio Miranda, Nueva literatura cubana, Madrid 1971, p. 17.
[53] In Orbita de la "Revista de Avance", La Habana 1976, pp. 9-10.
[54] Ecco il testo complete della dichiarazione: "Per la revisione di valori falsi e consumati. Per l'arte vernacola, e in generale, per l'arte nuova nelle sue diverse manifestazioni. Per l'introduzione e diffusione a Cuba delle ultime dottrine, teorie e pratiche artistiche e scientifiche. Per la riforma della Pubblica Istruzione e contro i corrotti sistemi dei concorsi a cattedre. Per l'autonomia universitaria. Per l'indipendenza economica di Cuba e contro l'imperialismo yankee. Contro le dittature politiche unipersonali, nel mondo, in America, a Cuba. Contro gli abusi della pseudodemocrazia, contro la farsa del suffragio e per una partecipazione attiva del popolo al governo. Per il progresso dell'agricoltore, del colono, dell'operaio a Cuba. Per la cordialità e l'unione latinoamericane". In Julio Miranda, op. cit., p. 20.
[55] La "Revista de Avance" iniziò le sue pubblicazioni il 15 marzo del 1927 e chiuse il 15 settembre del 1930. In totale vennero pubblicati 50 numeri.
[56] Al gruppo minorista avevano appartenuto in maniera più o meno stabile Jorge Mañach, Roldán, Villena, Marinello, Carpentier, Tallet, Martín Casanovas e Nicolás Guillén tra gli altri.
[57] Raúl Roa aveva scritto questo suo intervento il 18 novembre del 1931 nell'Ospedale Militare di Colombia dove era tenuto prigioniero in quanto leader dell'Ala Izquierda Estudiantil fondata da Eddy Chibás nel 1927, una frazione scissionista del Directorio Estudiantil. Si veda Raúl Roa, Retorno a la alborada, La Habana 1964, tomo I, pp. 26-27.
[58] Hugh Thomas, op. cit., p. 425.
[59] Anni dopo, il giornalista H. Matthews ebbe a scrivere: "Già nel 1933 Cuba era matura per una rivoluzione sociale, come lo fu poi nel 1959, ma gli Stati Uniti, che ancora esercitavano il controllo supremo degli affari interni di Cuba, in base all'emendamento Platt della costituzione cubana e attraverso il loro dominio economico, riuscirono ad impedire la rivoluzione. Il risultato di tale intervento furono altri ventisei anni di corruzione, violenza e inefficienza, culminati poi in una rivoluzione assai più radicale e pericolosa di quanto non avrebbe potuto essere nel '33", Herbert Matthews, The cuban story, New York 1961 (ed. italiana La verità su Cuba, Milano 1961).
[60] In "Bohemia", La Habana, 25 de dicembre de 1955.
[61] Assai irritante e paternalistico appare il modo in cui lo storico Hugh Thomas commenta quell'avvenimento: "Naturalmente le imperfezioni di questa costituzione erano considerevoli, come avrebbero potuto far pensare i destini incontrati da quella di Weimar e da quella spagnola. Non è che ci sia qualcosa di particolarmente deprecabile, come suppongono frequentemente gli inglesi, nell'idea di una costituzione scritta in quanto tale, poiché i paesi che non hanno una forte tradizione politica né abitudini radicale, hanno bisogno di una guida per agire e per cooperare. e molte costituzioni hanno assolto assai bene il loro compito" in op. cit, p. 527.
[62] Nel volume di testimonianze Moncada, epopeya heroica, La Habana 1979, p. 4, così viene ricostruito il discorso di Castro prima dell'inizio dell'azione: "Compagni, fra poche ore potrete vincere o essere sconfitti, ma in ogni caso — ascoltatemi bene, compagni in ogni caso questo movimento trionferà. Se domani vincerete, sarà stata realizzata più presto l'aspirazione di Martí. Se accadesse il contrario, il gesto servirà d'esempio al popolo di Cuba, per prendere la bandiera e andare avanti. Il popolo ci appoggerà in Oriente e in tutta l'isola. Giovani del Centenario dell'Apostolo, come nel '68 e nel '95, qui in Oriente diamo il primo grido di Libertà o morte".
[63] Fidel Castro, La Historia me absolverá, La Habana 1975, p. 53 e p. 82.
[64] H. Matthews, op. cit., pp. 10, 46, 53.
[65] Nicolás Guillén, "Gaceta de Cuba", n. 169 julio de 1978, 4.
[66] Bisogna aggiungere, per quanto riguarda gli anni più recenti, anche la solidarietà internazionale. In un discorso pronunciato in occasione del XXV anniversario dell'attacco alla Moncada (26-VII-1978), così si esprimeva Fidel Castro: "Che cosa sarebbe Cuba senza il resto del mondo? Se i nostri sogni di ieri sono la nostra realtà di oggi, i nostri sogni di oggi saranno la realtà del domani. E così sarà per tutti i popoli del mondo se saremo capaci di sognare insieme un futuro migliore".


Cuba. Una identità in movimento

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