Cuba

Una identità in movimento


Los Chinos de Cuba, un'altra faccia del prisma della creolizzazione caraibica (Parte II)

Carlo Nobili


"El Barrio Chino" a La Habana

L'elemento cinese è ben evidente nella cultura cubana e non certo nella sola arte culinaria.

Il grande studioso Fernando Ortiz ha ricordato come anche i riti di espulsione degli spiriti maligni (la cosa mala) di fine anno siano di origine cinese; a La Habana, come in qualsiasi città cinese, lo strepitio dei razzi, dei petardi e dei fuochi d'artificio è simbolo dell'arrivo del nuovo anno e il prodotto di antichi riti cinesi per spaventare e allontanare i demoni.

Vivono attualmente a Cuba circa 10.000 Cinesi, di cui circa 1.500 residenti nella capitale; le loro principali attività sono legate principalmente al commercio di prodotti di erboristeria, gestione di bar e ristoranti, lavanderie e mescite di succo di canna (chiamato a Cuba guarapo).

La sede del Kwon Wah Po. Foto tratta da: Bohemia InternacionalIl dialetto parlato è quello di Amoy, la località dalla quale in massima parte "los chinos" provengono.

All'Avana, nel Barrio Chino — considerato nei primi decenni del nostro secolo come uno dei quartieri cinesi più grandi dell'intera America Latina — la comunità cinese pubblica il periodico Kwon Wah Po e gestisce una farmacia, un teatro e varie associazioni di mutuo soccorso, come la società Lung Con Cun Sol.

Questa, creata a La Habana nel 1900 e conosciuta come la Casa del Abuelo (Casa dell'Avo), secondo la leggenda, fu fondata in Cina durante la dinastia Han dai quattro fratelli guerrieri Cuang Con, Lao Pei, Chui Chi Lon e Chui Fei.

La Lung Con Cun Sol, oltre a distribuire ogni giorno pasti gratis ai bisognosi, offre ai fedeli un altare per rendere culto ai quattro antenati mitici.

Altare di Cuang Con nel Casino Chung Wah. DettaglioÈ però a Cuang Con che si riserva una particolare attenzione; il guerriero è diventato in terra cubana San Fan Con, santo iracondo, padrone del colore rosso e della spada, così come Santa Barbara/Changó; il suo "trono", ci ricorda Lydia Cabrera ne El Monte, risiede nella Ceiba (Ceiba pentranda), l'albero più caratteristico dell'isola, quello sacro per eccellenza, laddove dimorano in permanenza tutti i morti, gli antenati, i Santi africani di tutte le nazioni deportate a Cuba e i Santi cattolici.

Sempre all'Avana, in una delle vie più importanti della città, Calle Línea, un grande monumento è dedicato ai tanti Chinos che lottarono per l'indipendenza cubana; l'iscrizione, parole pronunciate dal generale dell'Ejército Libertador Cubano Gonzalo de Quesada, recita:


No hubo chino cubano desertor, no hubo chino cubano traidor.


L'attuale comunità cinese dell'isola è formata oggi non solo dai "figli" dei contratados: tra il 1860 e il 1875 si stabilirono infatti a Cuba circa 5.000 emigranti cinesi provenienti dagli Stati Uniti, i cosiddetti "Californiani", che, dopo il 1902 (alla proclamazione della Repubblica), potendo fare affidamento su una situazione economica decisamente buona, si trasformarono in piccoli proprietari e gestori di botteghe di varia natura.

Ragazza del Barrio Chino a La Habana. Foto tratta da: Bohemia InternacionalTra il 1902 e il 1909, periodo che venne chiamato "danza de millones", la necessità di manodopera portò poi i proprietari zuccherieri ad importare oltre 1.300 Cinesi, e in questo stesso periodo arrivarono a Cuba anche 50.368 lavoratori dalla Giamaica, 39.606 da Haiti, 24.976 da alcune isole delle Antille britanniche (soprattutto le Leeward Islands), 13.000 da Puerto Rico, 8.000 da Panama e dal Centroamerica e ben 436.005 dalla Spagna.

Nel giugno 1997 si sono svolte, soprattutto nella città dell'Avana, le celebrazioni per i 150 anni dell'arrivo dei Cinesi a Cuba, mentre, sempre nella capitale cubana, tra il 2 e il 7 giugno 1998 si è celebrato il Festival de Chinos de Ultramar, un incontro in cui le varie comunità di Cinesi dei Caraibi hanno occasione di scambiarsi le proprie esperienze.


I "Cinesi" e la Guerra d'Indipendenza

Barrio Chino a La Habana. Foto di Peter J. Singhofen, tratta da: Cuba's People. Images from across the straitsTra i tanti eroi cinesi che contribuirono all'Indipendenza cubana vanno ricordati:


  • Juan Han Lai, che, arruolatosi nelle truppe di Henry Reeve (conosciuto con il soprannome di Inglesito), fatto prigioniero dagli Spagnoli e condannato a morire al palo, ebbe ancora la forza di urlare qualche istante prima della sua morte "Por Cuba Libre";
  • José Bu, Capitano del massimo dirigente militare cubano, il Generalissimo Máximo Gómez;
  • Sebastián Sian, Ufficiale che partecipò alla Victoria de las Minas de Guáimaro (1870);
  • José Tolón (Lai Wa), veterano di tre guerre;
  • il Tenente Rancredo, morto eroicamente a Las Villas;
  • il Comandante Sebastián Sian, che si distinse agli ordini del Generale statunitense Thomas Jordan;
  • Juan Anelay, che combattè sotto il comando di Henry Reeve.

  • Sembra che i primi Chinos ad arruolarsi nelle file dell'Ejército Libertador cubano siano stati quelli provenienti da Manzanillo, da Las Tunas, da Holguín, da Santiago de Cuba e da altre città orientali.

    Uno degli esempi più ricordati, tra le azioni che videro la partecipazione dei Chinos, è quello dell'assedio alla guarnigione di Manzanillo del 1873, conosciuto come El ataque de los Chinos.

    Nella battaglia di Las Guásimas, diretta da Máximo Gómez, le forze spagnole costituite da 3.000 uomini, furono decimate da 1.500 mambises, tra i quali vi erano oltre 500 Chinos; in questa battaglia si distinse il Capitano Juan Sánchez, il cui vero nome cinese era Lam Fu King.

    Non è possibile stimare con precisione quanti Chinos presero parte alle lotte per la libertà cubana, in quanto i Cinesi di Cuba erano obbligati a spagnolizzare i propri nomi originali.


    I "Cinesi" nella letteratura cubana

    Molto spesso i poeti cubani hanno reso omaggio ai Cinesi dell'isola:

      REGINO PEDROSO
      Mandarín de botón encarnado
      misterio de las pagodas,
      los clásicos lotos
      y la poesía de Li Tai Po.

      NICOLÁS GUILLÉN
      Yo vengo de Pekín
      Sin mandarín, ni palanquín.
      Allá la vida en flor está
      Se ve la vida puesta en pie.

      MIGUEL BARNET
      Pienso en la China milenaria
      en la China eterna y exultante
      en la China lejana y legendaria
      donde la mariposa breve
      nos regala seda, oro, amor eterno.

      NICOLÁS COSIO SIERRA
      Algún día visitaré la China ancestral
      admiraré sus pagodas, el Cuento de la
      Emperatriz poderosa y cruel;
      me ensoñaré y meditaré frente
      a los enigmas de la naturaleza
      que ya estremeciera a Confucio
      y recordaré a la briosa e invencible
      República de China.
      Ejemplo y vigencia de la China mítica.
      ¡Ejemplo y vigencia de lo eterno y admirable.

    Questo è invece un racconto intitolato "Los chinos" di ALFONSO HERNÁNDEZ CATÁ, pubblicato nel 1983 in Cuentos y novelas (La Habana, Letras Cubanas, pp. 46-50):


    No me pregunte usted cómo me encontré allí, ni por qué caídas fui a parar, desde la cuna rica y desde la posición de muchacho, a aquella cuadrilla de trabajadores. Entonces el cuento sería interminable. Estaba allí, y era uno más... Sólo uno más. Oiga usted lo que ocurrió con los chinos, sin preocuparse de otra cosa.

    El mulato llegó del oeste, el segundo día, y sus palabras inflamaron a todos, cortando los últimos lazos de aveniencia que quedaron tendidos entre el ingeniero y nosotros, en la entrevista de la noche antes. Subido sobre una pipa de ron, sin cuidarse del sol terrible, habló más de una hora. El tono exaltado de sus palabras incendiaba la sangre, y sus razonamientos, repetidos una y otra vez, penetraban en las inteligencias más torpes a modo de tornillos que nadie hubiera podido sacar ya sin romperlos.

      — ¡A los obreros de Bahía Brava, les han estado pagando a tres pesos y a vosotros a dos...! ¿Es eso justo? Y aquí el trabajo es más duro, porque hay cobertizos, sin tiendas de lona, y por el pantano... Si resistís, no sólo os tendrán que subir el jornal, sino que os pagarán los pesos robados, y unos podrán mandar un buen puñado a sus casas y otros ir a pasar unos días de diversión a la ciudad... Tres meses a peso por día, son ciento viente... Pero hay que resistir: cada día sin trabajo es para ellos peor que para nosotros, porque la obra es por contrata, y tienen que dar indemnización si no se acaba a tiempo. ¡Hay que resistir para chincharlos!

    Bajo la luz reberberante, el grupo seguía ansioso aquellas palabras que multiplicaban la ira recóndita. Éramos casi cien, y había de muchas partes; negros jamaiquinos de abultadas musculaturas, de sudor acre y de ojos de concha de mar; negros de país más enjutos, de color mielado y dientes que parecían luces dentro de las bocas; alemanes de rubio sucio, siempre jadeantes; españoles sobrios y camorristas, de esos que dejan sus tierras sin cultivo para ir a fertilizar el mundo; criollos donde se veía la turba confluencia de las razas, igual que en la desembocadura de los ríos se ve el agua salada y la dulce; haitianos, italianos, hombres que nadie sabía de dónde eran... Escorias de raza, si usted quiere. En todo caso, fatiga, exasperación, hambre, pasiones y un trabajo terrible, como un castigo.

    El mulato interpolaba en su arenga interjerciones de lenguas distintas, y a cada chasquido, una parte del auditorio vibraba. Cuando el agitador se fue, no dejó tras sí hervidero de gritos, sino ese silencio sañudo, hermano mayor de las decisiones colectivas. Puesto que el gobierno necesitaba resolver el conflicto pronto, por la proximidad de las elecciones, y puesto que el comité de la capital estaba dispuesto a socorrernos, resistiríamos. Resistiríamos sin comer, o comiendo frutas verdes de los maniguales. ¡Todo antes que seguir matándose por una miseria, bajo un sol que hacía crujir igual la pobre carne y la pobre tierra, sin otro alivio que la llegada de la tarde, en que hombres y paisajes quedaban extenuados de haber ardido todo el día, absortos en beata quietud henchida de ensueños de patria y de ensueños de brisa, sobre la cual iban apareciendo, poco a poco, las estrellas!

    Tres veces vino la vagoneta con emisarios a proponernos concesiones parciales, y tres nos negamos a escucharles. La última, nos recogieron las herramientas de trabajo y nos quitaron las tiendas de lona.


      — Es para meternos miedo — dijo uno.
      — ¡Tener miedo ellos de dejar hierros en manos de hombres! — rugió un negro, mostrando con risa satisfecha sus dientes ingenuos y feroces.

    Aun después de rotas las relaciones, vinieron a advertirnos que el mulato no pertenecía al Sindicato obrero, sino a una agrupación política bastardamente interesada en crear desórdenes. No les hicimos caso. Poco a poco, a medida que los ahorros se agotaban, fueron desapareciendo, hasta desaparecer, los vendedores ambulantes. Ni ron ni vituallas, ni siquiera esperanzas de tenerlas. Los primeros días unas nube de tormenta, que cubrieron el sol y el reposo, dieron al hambre aspecto casi dulce. Luego se despachó a la ciudad a un delegado de quien no volvimos a saber nunca. Los alemanes, una tarde, se fueron en busca de otro lugar en donde hallar trabajo; varios españoles los siguieron dos días después, y, a lo último, sólo quedamos unos cuarenta, arraigados allí por una especie de pereza furiosa.

    Cuando la necesidad empezaba a rendirnos, llegó un misterioso socorro de la ciudad, y la comida y la esperanza de nuevo apoyo nos volvieron a enardecer. Pero el entusiamo fue brevísimo: a los pocos días, sólo teníamos para calmar el hambre frutas terriblemente astrigentes, sin jugo, y para cogerlas, era menester caminatas más penosas aun que el hambre misma. Los primeros casos de disentería no tardaron en sobrevenir, y la fiebre me tumbó bajo la sombra seca de un árbol. Dos días después llegaron los chinos.

    Tres vagonetas los trajeron. Debían de ser unos noventa. Varias veces quise contarlos y no pude, porque se mezclaban y confundían unos con otros, igual que en el cielo las estrellas. Sus movimientos vivos, su pequeñez, su lividez y su flaquencia, hacíanlos parecer muñecos. "¿Eran aquellos los que iban a sustituirnos? ¡Bah, imposible!" Al verlos, nuestras vicisitudes se calmaron de pronto para dejar paso a palabras de sarcamos: "¡Pobre macacos amarillos! ¡Qué iban a resistir el trabajo tremendo! Si no tenía la compañia otros hombres, ya podía ir preparando nuestros tres pesos de jornal. El triunfo estaba cerca". En nuestro grupo menudearon los comentarios y las risas: "Buenos eran los chinos para vender en sus tiendecitas de la ciudad, abanicos, zapatillas, cajitas de laca y jugueticos de papel risado; excelentes para guisar en sus fonduchos, o para lavar y planchar con primor... ¡Oficios de mujeres, bien! Pero para aguantar el sol sobre las espaldas ocho horas, y agujerear el hierro, ¡hacían falta hombres muy hombres!" Con curiosidad burlona seguimos su primera jornada. Eran como hormigas amarillas, diligentes, nerviosas. La traviesa que solíamos alzar entre dos, levantábanla ellos entre cinco; pero la levantaban. Iban y venían incansables; y vistos en el trabajo, parecían aumentar en número... Luego, a la hora de comer, en vez de los guisos fuertes, y del vino, y del aguardiente de caña, arroz, nada más que arroz, y comido de prisa. "¡Ah, no podrán soportar así mucho tiempo!" ¡Había que devorar allí, para defenderse del sol que devoraba todo! No eran menester los guardias armados para custodiar su faena; sin que nosotros los atacásemos, caerían rendidos, dejándonos la presa poco envidiable de un trabajo sobre el cual era menester sudar y maldecir, y que ellos predendían hacer con la piel seca y en silencio”.

    Pretendían hacerlo, y lo lograban. A los tres días, nuestras risas irónicas fueron trocándose en seriedad, en pesimismo. Se crisparon los puños, y sonó la primera amenaza. Yo estaba muy débil, y en cuanto caía el día, me abrazaba una fiebre delirante. Vi llegar al mulato otra vez, cuchichear, discutir. Conmigo no contaron para nada. Una negra vieja que, apiadada de mí, había venido varias veces en lo más fuerte del calor a echarme frescas hojas de plátano sobre la cabeza, me arrastró hacia su bohío y empezó a curarme. Desde allí, al través de una bruma que, sin borrar la realidad, la borraba y alejaba fantásticamente, paralizándome por completo para intervenir en nada, vi todo.


      — ¡Puesto que son como bichos y no tienen en cuenta el derecho de los hombres, hay que matarlos como a bichos! — gritaba el mestizo.
      — Lo mejor es irnos a otra parte... Ya no debíamos estar aquí — murmuraba un blanco.

    Y un negro, arrugada la frente y casi el cráneo por la tenacidad de la idea, aseguraba:

      — ¡Mí no importar guardias!... Mí tener un machete y matar todos de noche, igual que en matadero... Mí saber bien... Así..., así.

    Pero el mulato lo calmaba, prudente:

      — No, sangre, no... Yo me marcho, y pasado mañana enviaré a uno de confianza con instrucciones mejores. Ya veréis como se arregla todo.

    Yo hubiese querido huir, pero no pude. Me pesaba el esqueleto — apenas me quedaba carne —, como si estuviera enterrado a medias en aquella tierra maldita. Además, sentía una curiosidad extraña merced a la cual, desde lejos, adivinaba el sentido de los movimientos y de los labios al moverse. Vi, dos días después, llegar a un anciano haraposo, hablar con varios y dejarles un paquete de hierbas; colegí primero el miedo, y luego la decisión pintados en los rostros, y con el alma hecha cómplice segura de la impunidad que la postración física le deparaba, en la sombra de la medianoche, presentí más que columbré al jamaiquino, ir a echar las hierbas en la gran paila donde se cocía el café de los asiáticos... Y por la mañana, cuando los miré acercarse con sus escudillas, percibí de antamano lo que los ojos habían de tardar unas horas en ver aún: cuerpos que se agarrotan, manos que van a oprimir los vientres en desesperados ademanes, pupilas que se abultan y salen de las cuencas cual si quisieran sujetarse a la vida, caras amarillas que se ponen mucho más amarillas y que caen crispadas contra la tierra, para no levantarse más.

    Veintidós cayeron así. Otros que habían bebido menos, murieron por la noche. ¡Ah, no olvidaré nunca el terror de los guardias, ni mi propio terror! Si un chino nos infunde siempre una invencible sensación de repugnancia y de lejanía donde hay algo de miedo, un chino muerto es algo pavoroso... Los cadáveres tendidos sobre el campo, bajo el trágico silencio del sol, galvanizaron a todos. Fue un día terrible. Mas al acercarse la noche y pasar sobre la sabana los primeros ecos de brisa, el grupo de culpables empezó a desbandarse para escapar, y suscitó la reacción de los guardías. La fuga duró poco: tras el primer movimiento del instinto, se entregaron sin resistencia. "No pensar, no trabajar, ir a la ciudad, y comer y dormir a la sombra, ¡qué dicha!", debían pensar los desventurados, casi contentos de su infortunio. El testimonio de la negra me salvó: "Estaba desde hacía cinco días enfermo, y no había podido intervenir". Atontado, sin lágrimas, los vi marchar en fila hacia el oeste, por donde el mulato había venido, bajas las cabezas, atados los brazos a la espaldas. Al día siguiente vinieron en la camioneta unos hombres, tiraron tiros a los cuervos, y se llevaron los cadáveres. Todo quedó solo, y yo pude dormir al fin.

    Una mañana, no sé cuántas después, me despertó ruido de gentes. Miré con avidez, y sentí el escalofrío de la alucinación penetrarme hasta el tuétano. De la vagoneta habían descendido treinta hombres amarillos — iguales, absurdamente iguales a los que yo ví caer muertos en tierra, cual si en vez de llevarlos a enterrar los hubiesen llevado a la ciudad para recomponerlos —, y con diligencia de hormigas, ante mis ojos enloquecidos, empezaron a trabajar.





    Parte I — Parte II




    Tratto da: NOBILI Carlo, "Los chinos de Cuba, un'altra faccia del prisma della creolizzazione caraibica", Lares, Firenze, anno LXVI, n. 3, 2000, pp. 379-391.


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