Cuba

Una identità in movimento

Los Van Van e il 4 dicembre

Ferruccio Paoletti



Come un sogno ricorrente, come un film che si riavvolge infinite volte, ricordo in quella sera di luglio il concerto che i Van Van aprirono con "Permiso que llegó".

In religiosa attesa, a bocca aperta ascoltavamo finalmente il rombo sordo e profondo delle percussioni e le note introduttive del synth, deboli e un po' sbilenche negli echi che rimbalzavano attraverso l'arena affollata. Avverto ancora l'eccitazione palpabile, vedo le cortine dei fumogeni che nascondono, un po' maldestramente, l'ingresso dei nostri, effetto trito, risaputo e già provato in molti altri concerti... ma questa volta è un inizio realmente vivo, sorprendente, uno tra i momenti più emozionanti che io ricordi, col "Guayacán", il cantante Roberto Hernández, a irrompere sul palco facendosi strada tra gli strati di fumo, figura imponente — e non soltanto per la stazza fisica — chiusa sul petto la candida camicia del sacerdote, il passo ieratico del "babalao"[4], la voce penetrante a stagliarsi sul coro dei "Santi" intonato in sottofondo:

Svaniva il velo dei fumogeni mentre in progressione il brano prendeva il volo.

Nell'atmosfera rarefatta possiamo scrutare ora per tutta la lunghezza del palco, dove campeggia da un lato la sagoma impassibile del canuto Formell, appoggiato al suo bajo, al centro il figlio Samuel a martellare con precisione e piglio energico la batteria e i timbales, e poi il resto del gruppo, con tanto di formazione a charanga (due violini e flauto) in perfetto spolvero.

Sempre la voce tagliente del "Guayacán", padrone assoluto della scena, ci trascinerà in pochi istanti alle lande d'incanto che celano il senso profondo e drammatico di un'iniziazione, la storia di una missione intrapresa trenta anni or sono per volontà degli... dèi:

Così iniziò il concerto tanto atteso... con un incantesimo, una magia, la descrizione accorata di una storia remota e fumosa che risale alle origini, al mistero del 4 Dicembre, storia che si propaga nel tempo rivivendo come nuova a ogni occasione presente.

Ascoltavamo rapiti la canzone e questa sembrava non voler mai terminare, nemmeno giunta a quel finale che sfuma lentamente, impercettibilmente; così come era iniziata, con un cerimoniale, il rituale dei simbolici passi di Elegguá[10]:

... ma già pregustavamo lo schiudersi dei prossimi tesori.

Col passare dei minuti e il trascorrere dei brani, cercavamo con lo sguardo l'altro "sacerdote" — Mayito Rivera.

All'inizio quasi nascosto, in tono minore (al cospetto della potenza diretta, prorompente del gigante e carismatico Hernández), enigmatico ed equivoco personaggio — la canottiera rossa e gli occhiali scuri del gigolò — presenza sfuggente fino a che l'esibizione consentirà, esplodendo nel vivo e toccando il repertorio che gli compete, di apprezzarne le doti vocali uniche.

Come quando giunge il momento di "Soy todo", quella composizione del poeta Eloy Machado (altresì noto come El Ambia) che destò tanto scalpore allorché venne ripresa in musica dai Van Van, nell'album "Ay Dios ampárame". Momento profondo e sentito, a partire dalla breve introduzione strumentale che già commuove, coi morbidi accordi di piano in contrattempo, il velo d'organo (e sentire la versione su disco per ammirare il synth che ricopia inusitati registri ecclesiastici), il basso che affonda in toni dimessi sulle scale cromatiche discendenti, e la sezione di tromboni ad accennare la melodia soave sulla quale prenderanno slancio i violini... e poi:

Fino al ritornello:

sul quale si innesterà il seguito della canzone (non più dalla penna di Machado: la seconda parte infatti si deve direttamente all'ispirazione di Juan Formell) col suo finale parossistico, i cori ¡Ay Dios ampárame! e certe infuocate guías, o vere e proprie preghiere, proferite a squarciagola da Mayito.

Ma Mayito stesso, e il tema della ricorrenza del 4 Dicembre, ci portano a un'ultima tappa dell'avatar, mentre scopriamo il tassello finale di questa sorta di "trittico" di Canti dell'Iniziazione[17]: la meravigliosa canzone intitolata "El tren se va"[18] (che — piccola ma dolorosa lacuna — purtroppo aspettammo invano per tutta la durata del concerto), dove il cammino a ritroso verso le origini e verso nuove rivelazioni è aperto, come su rotaie che si addentrano in una giungla, dal moto dirompente e incessante della locomotiva.

Questo brano ("Il treno sta partendo": treno come metafora di movimento, di trasformazione, tren del sentimiento[19], come canta Hernández, o tren de la alegría que me rompe el corazón annunciato da Mayito, ma anche macchina ritmica inarrestabile in cui l'insieme basso-percussioni riesce davvero a superare se stesso) ha un inizio tra i più impressionanti che si ricordino. Nelle prime otto battute, sul tappeto spedito, preciso come un rolex, di batteria e percussioni, gli arpeggi di Pupy al piano e il tumbao di Formell al basso costruiscono da subito un disegno in tonalità minore melanconico e sognante, coi piccoli scoppi di trombone ad armonizzare dolcemente per un formidabile effetto "vaporiera": in pura onomatopea, il treno a tutti gli effetti è in partenza! Nelle ulteriori otto battute entrano il flauto e i violini a charanga, a delineare una melodia vaga ed esotica (sapore e tristezza profonda di certa rumba, ma personalmente mi ricorda qualcosa degli autori classici russi — alla "Scheherazade"), dopodiché l'incipit conciso, urgente, sfocia nell'attacco del coro:

Immediatamente entrano, in successione ordinata, i tre cantanti, spartendosi uno dopo l'altro ciascuna delle tre strofe iniziali dove troviamo scolpite lapidarie sentenze che richiamano tradizione, magia, vocazione, tutto nella potente fusione di un solo, comune afflato: ancora una volta, la "missione" musicale a cui sono chiamati i Nostri [non saprei onestamente addentrarmi in un'analisi di tutti i significati sottesi da questo grande brano, ma mi sembra di poter affermare che, partendo dalla tradizione della rumba, la celebrazione metta alla fine l'enfasi sul tema della nascita del Songo[20]].

L'effetto prodotto dalle tre voci, che subentrano l'una all'altra pacate, ma fiere e in profonda consapevolezza, fa pensare a una sorta di "liturgia profana". Dapprima Pedrito Calvo:

Annunciato dall'immancabile richiamo (¡Ahí na' más, ahora me toca a mí, mira!), è quindi la volta del "Guayacán" Hernández:

E infine (al grido caratteristico Sí, ¿cómo?) la terza strofa, cantata da Mayito:

Mayito che prende poi possesso dell'intera canzone, fino al corpo centrale nel quale il nuovo montuno fornirà lo spunto per il racconto di un'autentica esperienza mistica, con le immagini vivide e terrifiche dell'iniziazione e l'apparizione della Santa (Barbara).

Sul binario dell'incessante treno ritmico sul quale procede questo splendido inno, al coro che incalza El Songo nació en el Monte / por eso todos los Santos me responden ["Il Songo è nato nel monte / per questo tutti i Santi mi rispondono"], Mayito ribatte declamando orgoglioso le sue guías: "Sono nato il 4 Dicembre", e in questo egli veramente "è tutto", proprio come nel poema di Machado, è nello stesso tempo il cantore, il figlio di Changó, è il battezzato, è Songo, l'eletto, relegato alla dolce... condanna di usare la sua meravigliosa voce — come l'usignolo:

e ancora, dopo il mambo invocato dal cantante, con le note corpose dei tromboni che si stagliano sul ritmo sbuffante del "treno", scandito da batteria e campana in grande evidenza:

... "tiene Mayombe"... credo proprio di capire, parafrasando la canzone, che se i Van Van riescono a trarre una musica così ricca di sabor, a toccare con maestria i loro strumenti e a far vibrare magicamente le corde vocali, se riescono a esser sempre sulla breccia nonostante i trenta anni e più di carriera all'attivo, se sono questi mostri "sacri" (in ogni senso), i detentori del reame musicale a cui sempre è necessario chiedere il permesso come di fronte all'altare nella casa del santero, se la storia della Salsa vede il loro nome scolpito per memoria imperitura, se procedono come la poderosa locomotiva, che parte incurante e nulla e nessuno aspetta, se riescono in tutto questo il merito alla fine va... agli stregoni "Palos"! o quanto meno ai Santi... (insomma, è volontà divina).

Non rimane a questo punto che il finale della canzone, che sfuma — questa volta velocemente — sui versi del coro:

mentre il treno, invece, continua imperterrito a marciare, sferragliando allegramente. Almeno nelle nostre orecchie, e nella passione che ogni volta viviamo quando balliamo su questi ritmi straordinari. E nella memoria un po' inquietante di un concerto che ci lasciò con un sapore forte, difficile da dimenticare.





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Webmaster: Carlo NobiliAntropologo americanista, Roma, Italia

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