Cuba

Una identità in movimento

Cesare Zavattini e Mario Gallo a La Habana

Francesco Vespoli



Cesare Zavattini

Nel dicembre 1953 Zavattini giunse per la prima volta a Cuba in transito per il Messico, dove doveva lavorare in alcuni progetti con Manuel Barbachano Ponce, produttore del film Raices, vincitore del festival di Cannes. A Cuba era stato invitato dalla società progressista Nuestro Tiempo per assistere ad un ciclo di film italiani e scambiare impressioni con i giovani valori insiti in quella società d'avanguardia, entro la quale vi erano due cineasti usciti dal "Centro Sperimentale di Cinematografia": Tomás Gutiérrez Alea e Julio Garcia Espinosa.

In questo ambiente, limitatamente al tempo, Zavattini conobbe la situazione del paese, le inquietudini dei giovani, del popolo, commuovendosi per l'assalto al Moncada, avvenuto appena cinque mesi prima.

In quegli stessi giorni di dicembre 1953 si celebrava il "Congresso di Parma", che esaminò la crisi del neorealismo, derivata da screpolature nella forma, contenuto e nella divergenza dei suoi adepti che subito culminò nella totale dissoluzione. La conseguenza di quegli eventi portò Zavattini a fare un compromesso con i giovani cubani che vedevano il movimento neorealista e le sue figure come paradigma nella denuncia delle ingiustizie e della miseria come efficace agente per trasformare una società che necessitava di cambi radicali.

La seconda visita di Zavattini a Cuba avvenne nel gennaio 1956, altro momento politico di agitazione popolare e repressione da parte della tirannia che trovò la massima espressione nei preparativi per lo sbarco del Granma alla fine dello stesso anno.

Questa volta, il cineasta italiano ebbe il privilegio di assistere alla proiezione del documentario "El Mégano", realizzato da una équipe di giovani cineasti dell'Associazione Nuestro Tiempo (Julio García Espinosa, Tomás Gutiérrez Alea, Alfredo Guevara, José Massip, Jorge Fraga e altri).

Gutiérrez Alea, riferendosi a Zavattini, disse:

"...si presentava con sufficiente fedeltà, riconosceva, tuttavia, che eravamo imbevuti da tutte quelle teorie neorealiste importate dall'Italia, nel rappresentare le dure condizioni di vita dei carbonari della Cienaga e lo sfruttamento di cui erano vittime... ".

Quel documentario, alla cui proiezione aveva assistito Zavattini, fu in seguito sequestrato dagli agenti del servizio segreto militare e recuperato dal Che nel 1959, quando lo riprese dagli archivi degli uffici preposti alla repressione delle attività comuniste (Brac).

Questa fu la Cuba che visse Zavattini, in due momenti chiave della sua storia. Quelli furono i giovani con i quali divise il suo tempo, le sue idee e inquietudini.

Al suo ritorno scrisse sulla rivista Cinema Novo:

"... a pensare se fossero stati qui alcuni signori di via Veneto, alcuni letterati, udendo gli apprezzamenti che venivano fatti al nostro cinema fuori dall'Italia, avrebbero certamente avuto vergogna del proprio scetticismo. Dal cinema italiano gli stranieri si aspettano indicazioni di vita, stimolo nella lotta, come se noi italiani stessimo sempre lavorando per soluzioni non più in la del romantico... ".

Frutto di queste riunioni con i cineasti cubani fu l'intento di realizzare un progetto chiamato "Cuba mia", versione cubana di "Italia mia", nella quale attraverso piccole storie, con piena libertà di concezione di immagini, si presentavano importanti aspetti della realtà. Questo progetto, purtroppo, non si concretizzò per mancanza di produttori, ma risultò una notevole esperienza e il preambolo di una collaborazione che senza saperlo allora, si sviluppò nella Cuba libera. Tre anni dopo, nel dicembre del 1959, Cesare Zavattini tornò a Cuba, questa volta per due mesi, fino al febbraio 1960. Su questo evento disse: <

"Mi considero un uomo fortunato a poter vivere nel cuore di uno degli eventi del nostro tempo più reale e allo stesso tempo, più leggendario. Oltre all'importanza politica che ne deriva per quello che è successo a Cuba, questo momento politico è un momento di immaginazione, di prodezza favolosa, un momento che, per la sua eroicità, sembra una cosa accaduta in altri tempi... ".

L'obiettivo preciso di Zavattini era, a parte quello di conoscere a fondo il processo rivoluzionario, di offrire la propria collaborazione al processo costruttivo cubano. Molti dei cubani erano a conoscenza delle sue precedenti visite ed erano felici di avere una collaborazione così ricca di conoscenze letterarie e cinematografiche, per sviluppare un cinema totalmente nuovo che riflettesse con verità i cambi che in ogni minuto si manifestavano nel paese. La prima riunione avvenne nel neo costituito Icaic (la cui creazione fu la prima legge culturale del Governo Rivoluzionario), revisionando materiali e idee, sulla investigazione di un argomento che fu fedele testimonio del momento. Da qui sorse la necessità che portò Zavattini ad informarsi con maggiore precisione sul paese, la sua storia, la sua gente, per cui i primi 20 giorni furono ciò che lui amava definire "ambientazione storica".

In contemporanea con questi tempi di ambientazione, impartì un corso tecnico per l'elaborazione di guide, ricordando ai partecipanti:

"Quando andrò via da Cuba, voi saprete quello che io so... ma il primo e il miglior corso tecnico che si può apprendere è quello di una rivoluzione come quella cubana. Quella può esprimere i migliori elementi, le migliori condizioni, per scrivere magnifiche guide... ".

Così Zavattini approfondì la problematica nel contesto, nella comprensione dell'idiosincrasia del cubano, nelle principali necessità di orientare la critica, di orientarsi verso uno stile:

"La necessità di uno stile cubano nel cinema — scrisse — non significa che tutti gli artisti cubani devono filmare nello stesso stile, ma tutti devono rispondere ad una unità politica, morale, umanista, che deve essere comune".

Conferenze, interviste, scritti febbrili: Zavattini era allucinato nell'esaminare tanti avvenimenti vertiginosi in un paese in cui la libertà era una realtà, in cui vi era materiale ricco e sufficiente per utilizzare centinaia e centinaia di metri di pellicola, un paese in cui ancora vi era la possibilità di creare quello che lui stesso non aveva potuto ottenere nella sua lontana patria.

Dopo molti giorni di interscambio, di discussioni su nuove forme per produrre documentari, notiziari, lungometraggi che facessero comprendere al mondo la nuova e promettente realtà cubana, di analisi di progetti per riassumere problemi storici, politici, sociali e artistici, decisero di optare per un argomento che riuniva tutte queste caratteristiche: "Si tratta di un ragazzo di 14-15 anni che vive sulla Sierra. È un argomento incredibile per lo straniero... " segnalò Zavattini, concependo quello che un anno dopo si convertì nel quarto lungometraggio dell'Icaic sotto la direzione di Julio García Espinosa: "Il giovane ribelle".

Così si materializzò la visita di Cesare Zavattini a Cuba, che fu soprattutto, una lezione di generosità senza limiti e, per ambo le parti, la realizzazione di un sogno.

Zavattini non tornò più a Cuba, prima per ragioni di lavoro e poi di salute. Ebbe però sempre nei suoi ricordi l'isola, la gente che conobbe, la rivoluzione che appoggiò e difese, com'è riportato nei suoi messaggi, nelle sue lettere, nelle sue memorie.

Di quel remoto viaggio nel 1953 già perso nel tempo scrisse:

"Pensavo se era giusta l'incisione che avevo visto scritta sul muro nella sala di proiezione dell'Università: Lumiere, Edison, Meliès, Porter, Griffith, Wiene, Chaplin, Eisenstein, Murnon, Flaherty, Disney, Laurence Olivier. Pensavo che tra questi nomi doveva esserci pure quello di qualche regista italiano o che ci fosse almeno la parola neorealismo. Non per quello che ha fatto ma per quello che farà".


Mario Gallo

Agli inizi degli anni '60 in tutta Europa i giovani organizzano manifestazioni, polemizzano, contribuiscono ad attivare gli interessi per gli aspetti più vari della vita contemporanea. Nel cinema, poco a poco, nuove figure come Maselli, Rossi, appaiono al fianco di Fellini, Rossellini, Visconti. Tra questi giovani uno di quelli che promette di più è un uomo alto, con lo sguardo chiaro e inquieto dei lottatori per una giusta causa. Il suo nome è Mario Gallo.

Gallo, come Truffaut, come Chabral, proviene dalla critica cinematografica. Critico del quotidiano Avanti, organo ufficiale del Psi di Nenni e collaboratore della rivista Film selezione, Gallo ha partecipato in più di dieci anni a diverse dispute al fine di sviluppare nel pubblico italiano il gusto per un buon cinema e per portare in tutti gli angoli d'Italia i migliori prodotti del cinema mondiale. Questo lavoro, realizzato in seno all'associazione dei critici cinematografici, ha portato ad ottimi risultati.

Nel conoscere i dati provenienti da tutte le sale cinematografiche italiane in merito ai film proiettati, Gallo ha scritto:

"Poco a poco nei cinema di quartiere le pellicole che hanno ottenuto un buon esito si chiamano: La corazzata Potemkin di Eisenstein, Giovanna d'Arco di Dreyer, Hiroshima, mio amore di Resnais. Con i cine-club, i cine-dibattiti, i critici italiani hanno effettuato un buon lavoro, senza l'appoggio del governo, che mira ad estendere al gran pubblico il cinema di buona qualità".

Questo apprezzamento più tardi si rifletté nella realizzazione di film. I realizzatori si sentirono appoggiati, compresi e potevano lanciarsi nel filmare opere di tanta maturità come La dolce vita di Fellini. Film che per diversi mesi è stato argomento di dibattito in tutta l'Italia.

Come i suoi colleghi francesi, come i suoi predecessori in Italia — De Santis, Lizzani, Antonioni —, Mario Gallo non limitò la sua attività all'aspetto critico, ma si lanciò dirigendo due documentari filmati nella sua Calabria, terra natale. Alcuni di questi documentari ebbero un'audience mondiale, mentre allo stesso tempo Gallo coltivava i suoi impegni politici. Il mondo di allora, pieno di conflitti, era parte delle sue preoccupazioni quotidiane.

Come tutti gli uomini progressisti seguì con appassionato interesse l'inizio e lo sviluppo della rivoluzione cubana. Un giorno a Roma ebbe l'opportunità di conoscere e parlare con il capitano Nunez Jimenéz e a tale proposito disse:

"Compresi grazie al dr. Jimenéz, che la riforma agraria cubana era un esempio che noi in Europa dovevamo studiare a capire".

Gallo organizzò sessioni di documentari cubani, scrisse articoli e si convertì in un deciso e attivo difensore della rivoluzione cubana. Quando l'Icaic lo invitò per dirigere due documentari, Gallo aveva già una seria conoscenza geografica, economica e storica di Cuba. I temi scelti furono: l'adattamento dei contadini alla lotta rivoluzionaria e le danze cubane nelle varie manifestazioni.

Durante due mesi, Gallo e la sua équipe (gli italiani Giuseppe de Mitri, fotografo; Biliardi, organizzatore; i cubani Manuel Peréz, assistente e Miguel Mendoza, produttore.) giravano per l'isola filmando diverse località. Il risultato fu: Arriba el campesino e Al campos de Cuba, documentari realizzati a colori.

"La scelta di un film sui campesinos — disse Gallo — è dovuta al fatto che in Calabria, ero leader del movimento agrario. Lo stesso Nunéz mi disse che i problemi riscontrati nei campesinos a Cuba erano gli stessi che noi avevamo nel sud dell'Italia. Le differenze in cui potevo inciampare erano di indole esterna, non acute (altra lingua, paesaggio diverso, costumi particolari... ). Quindi l'adattamento poteva essere semplice, come accadde in breve tempo. D'altra parte in Europa i problemi latinoamericani sono conosciuti poco e male. Sia gli specialisti che gli uomini politici sono privi o si privano di dettagli concreti. Il continente americano si guarda come un mondo a parte del quale non si può essere sicuri se quello che accade ha un significato positivo o negativo. Che cosa è in realtà la rivoluzione cubana? Chiedevo a me stesso prima di mettermi in contatto con Núnez Jimenéz e, tramite lui, con la realtà cubana. Quando Jimenéz mi parlò dell'importanza capitale della riforma agraria, mi prese l'ossessione di plasmare alcuni aspetti di questa riforma in un film documentario capace di dire agli europei: guardate quello che sta accadendo a Cuba, rendetevi conto di ciò che questo significa per l'America Latina e di quello che questo può significare per noi. Decisi di realizzare il film, di mostrare soprattutto la presa di coscienza rivoluzionaria tra i campesinos. Infatti il documentario tratta dei problemi dei campesinos prima della rivoluzione (che erano compresi perfettamente nel mio paese) e dal momento in cui con lo sbarco di Fidel e dei suoi compagni i campesinos sono messi di fronte ad una alternativa: vivere come sempre nella miseria e nell'inganno o prendere le armi e guadagnare la terra dove un giorno potranno lavorare. Arriba el campesino, mostra la tappa iniziale per la libertà e il diritto di possedere la terra".

"Al campos de Cuba — continua Gallo — mostra un altro aspetto conosciuto male, svigorito, della realtà cubana. La musica cubana è conosciuta in Europa, ma attraverso una versione deformata. La rumba o il cha cha cha, che si ballano in Europa, non hanno niente a che vedere con la forma autentica di Cuba. Un filtro made in Usa, addolcisce e guasta l'originale. Ho scelto allora quegli aspetti conosciuti male o sconosciuti tra noi dei balli cubani: il son, le danze folkloristiche dei negri, il guajiro, l'autentica rumba. Per queste caratteristiche credo che questo documentario debba avere un gran successo in Europa".

Un fraterno pranzo di commiato riunì Mario Gallo, i suoi compagni italiani, con i giovani cubani che parteciparono in giro per l'isola alla realizzazione dei documentari. La conversazione andava da un tema all'altro, senza seguire linee precise. Musica, cinema, rivoluzione... L'entusiasmo di Mario Gallo per tutto quello che si riferiva alla rivoluzione cubana non poteva reprimersi:

"Questi due mesi sono stati per me come un bagno di ossigeno. La vita politica nei paesi dell'Europa occidentale imprime le sue caratteristiche negative, a volte perfino nelle forze della sinistra. Uno si vede obbligato a misurare le parole, a pensare e ripensare all'accaduto. Arrivare a Cuba e vedere la chiarezza con la quale si parla, la libertà di azione che esiste, risulta uno spettacolo entusiasmante. Mi sento come rivitalizzato e se dovessi rifare il lavoro, lo rifarei con doppia energia. In quanto al cinema, voi non avete una tradizione, una scuola, mancate di pregiudizi e questa è una grande virtù perché offrirà una varietà molto interessante a tutto quello che produrrete. Mi allarmerei se si volesse fare qui un cinema alla maniera del neorealismo o della nuova onda francese o di qualche cineasta americano. Non può negarsi che qualche cineasta cubano tenda ad avere influenza da una linea o da un'altra, però prima di tutto esiste in voi una decisione giusta, certa, di formare un'industria cinematografica cubana con le caratteristiche più proprie di questo paese. Questo è l'unico sistema per ottenere ampio audience internazionale".

Di Mitri, il fotografo, compagno di tutte le avventure cinematografiche di Mario Gallo, raccontò ad uno dei presenti vari aneddoti su Fellini, durante le riprese del film La dolce vita. Di come Fellini realizzava le scene più audaci del film con un prete al fianco. Si parlò di Ingmar Bergman, Stanley Kubrich, di Alain Resnais e di altri.

Il pranzo si protrasse per molte ore e Mario Gallo e i suoi compagni dovettero affrettare i preparativi prima di partire per l'aeroporto.

Progetti futuri? — fu una delle ultime domande poste al regista.

"Realizzare l'edizione dei due documentari — rispose —, continuare il mio lavoro di critico cinematografico e fare l'assistente di Mario Monicelli nel suo prossimo film La grande guerra, così come in altri film di grande qualità. Saranno di sicuro esperienze che mi prepareranno per quando avrò l'opportunità di dirigere il mio primo lungometraggio".


Testo tratto da JESÚS VEGA, Zavattini en La Habana (La Habana, Unión, 1994); e da: vari articoli della Rivista "Bohemia" degli anni '60


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