Cuba

Una identità in movimento

Le radici nere di Cuba nella letteratura

Bianca Pitzorno



A Cuba c'è un proverbio molto diffuso che dice

"Quien no tiene de congo, tiene de carabalí".

Ossia, non c'è nessuno sull'Isola che possa escludere di avere nelle proprie vene almeno una goccia di sangue africano, una goccia di sangue nero e schiavo. "Congo" e "Carabalí" erano i due gruppi etnici — fra i molti trasportati dalle navi negriere — con la pelle più scura, e dunque considerati ancora più "inferiori", praticamente "subumani" dai padroni creoli e spagnoli.

Io credo che non si possa capire la Cuba di oggi, la sua forza e resistenza davanti alle difficoltà, il suo desiderio estremo di libertà e indipendenza — costi quello che costi — se non si considera che i suoi abitanti hanno ancora un ricordo vivissimo della schiavitù e degli sforzi che i loro nonni e bisnonni hanno affrontato per eliminarla. Nell'Ottocento la lotta dei cubani per l'indipendenza dalla Spagna è sempre stata strettamente legata alla lotta antischiavista. Eppure l'eliminazione della schiavitù sull'Isola è così recente che nei primi anni Sessanta lo scrittore e sociologo Miguel Barnet potè intervistare un vecchio, Esteban Montejo, che era nato schiavo, era fuggito dai suoi padroni ed era vissuto molti anni nascosto nella boscaglia, prima di arruolarsi fra i mambises e combattere per l'indipendenza dalla Spagna. Gli schiavi fuggiaschi venivano chiamati cimarrones; veniva data loro la caccia con cani ferocissimi, e se venivano ripresi vivi erano puniti in modo crudele, se non uccisi per dare l'esempio agli altri schiavi.

Il risultato dell'intervista di Barnet a Esteban Montejo fu un libro intitolato Biografia di un cimarrón, che fu pubblicato nel 1966 e salutato come un capolavoro dalla critica letteraria di tutto il mondo.

"Per la prima volta la parola 'Unico' può usarsi nel suo giusto significato" — scrisse Graham Green —. "Non c'è mai stato, prima, un libro come questo, ed è poco probabile che ce ne sarà un altro dopo".

Mi piace cominciare con la Biografia di un cimarrón un breve elenco di testi narrativi scritti da autori cubani che affrontano l'argomento della schiavitù e della tratta degli schiavi. Sullo stesso tema sono stati scritti molti saggi storici. La stessa Storia di Cuba dell'inglese Hugh Thomas pubblicata da Einaudi dedica all'argomento diversi capitoli. A chi legge lo spagnolo suggerisco un agile libretto scritto da Fernando Ortíz, il grande ricercatore socio-etnologico conosciuto come il Terzo Scopritore di Cuba, che s'intitola Travesía y Trata Negrera ed è stato pubblicato nel '93 dall'editore "Publigraf" di La Habana.

Ma la vicenda dello schiavo Esteban raccontata da Miguel Barnet, pur avendo l'attendibilità della testimonianza storica, ha il respiro metaforico e universale del romanzo di fiction e non è un caso che sia conosciuto in tutto il mondo.

Un romanzo che invece non è molto conosciuto all'estero, ma che per i cubani è l'equivalente dei nostri "Promessi Sposi" e viene studiato a scuola con la stessa attenzione, si intitola Cecilia Valdés, e racconta anch'esso una storia legata alla tratta degli schiavi.

Come Manzoni, anche il suo autore, Cirilo Villaverde, ne scrisse diverse versioni, a partire dal 1839, fino alla stesura definitiva, pubblicata nel 1882.

Anche in questo romanzo si parla di un signorotto spagnolo che vuole impedire un matrimonio. Addirittura vi compare la frase:

"Questo matrimonio non s'ha da fare".

Diversi però sono i motivi.

L'intreccio è un tipico drammone ottocentesco. C'è un emigrato spagnolo che ha sposato una ricca signora creola e che a sua volta si è arricchito con la tratta degli schiavi. Possiede piantagioni di caffè e di canna, uno zuccherificio e moltissimi schiavi che vi lavorano. Anche la sua ricca casa cittadina è piena di schiavi domestici di ogni età.

Don Candido Gamboa, così si chiama, ha tre figlie e un unico maschio, Leonardo adorato e viziato dalla madre. E di chi si va a innamorare "el niño Leonardito", se non di una bellissima e giovanissima mulatta di nome Cecilia Valdés? Nessuno, a parte suo padre, sa che Cecilia è nata da un'avventura giovanile di Don Candido con una donna di colore, e dunque è sorellastra dell'innamorato. Dopo molte peripezie questo amore inconsapevolmente incestuoso avrà una fine tragica per entrambi i giovani.

Ma più che per questo intreccio tipicamente romantico il romanzo, che si svolge a La Habana tra il 1812 e il 1831, è invece estremamente interessante per la descrizione dei costumi cittadini, della corruzione degli amministratori spagnoli, della misera vita degli schiavi nelle piantagioni, del commercio negriero, a quell'epoca già vietato dall'Inghilterra ma largamente praticato da tutti i notabili cubani.

Quando una nave carica di "sacchi di carbone" trasportati dall'Africa stava per entrare nella rada di La Habana, se vedeva che una nave inglese stava incrociando in quelle acque, con grande disinvoltura si disfaceva del suo carico illegale scaricando a mare e lasciando annegare tutti i prigionieri.

Né più leggera era la vita nelle piantagioni. Lo schiavo disperato non aveva neppure i mezzi per suicidarsi, tanto che aveva elaborato un tremendo metodo di autosoffocamento aspirando all'indietro la lingua fino a che gli bloccava il respiro. In città alle schiave domestiche venivano tolti e venduti i bambini perché potessero allattare i figli dei padroni; la gazzetta pubblicava gli avvisi di ricerca degli schiavi fuggiti, e della loro cattura (o uccisione, se non si arrendevano) s'incaricava un ufficiale pubblico di colore, il terribile Tondá.

Chi conosce il centro storico di La Habana moderna potrà riconoscere strade e piazze, attraversate dai ricchi protagonisti in calessino, mentre gli schiavi domestici andavano a comprare le cibarie per i padroni al mercato della Piazza Vecchia, dove il pesce veniva tenuto in fresco nell'acqua della fontana centrale, oggi ripristinata (e donata dall'Italia) nel quadro dei lavori di restauro di La Habana Vieja.

Chi invece conosce abbastanza lo spagnolo potrà apprezzare il tentativo fatto da Villaverde di riprodurre la lingua ibrida usata dagli schiavi arrivati da poco dall'Africa e costretti a farsi capire in qualche modo dai padroni, pena le percosse e la morte.

Molto più recente, pubblicato nel 1997, è il romanzo El polvo y el oro, dello scrittore giornalista Julio Travieso Serrano (Editorial Letras Cubanas). Qui è un cubano di oggi che ricostruisce la storia dei suoi antenati, i Valla, arrivati dalla Spagna agl'inizi dell'Ottocento, e diventati ricchi con la tratta degli schiavi. Generazione dopo generazione tutti i Valla però incontrano un tragico destino. Su di loro pesa una maledizione, quella di una schiava africana che, al suo arrivo al porto di La Habana, si ribella morsicando la mano del padrone che la sta valutando palpandola come un animale. Lo scrittore alterna nel racconto, alle vicende dei padroni bianchi, il punto di vista della schiava, che vive con loro servendoli e odiandoli, e anche dopo morta li segue, reincarnandosi sotto varie forme secondo i riti delle diverse religioni africane.

Questa presenza costante è la metafora della cattiva coscienza di chi ricorda un passato d'ingiustizie, di chi gode di una ricchezza costruita sul sangue e la fatica degli altri.

Il punto di vista della schiava è composto nel volume in caratteri tipografici diversi, in modo che il lettore lo possa riconoscere immediatamente.

A differenza di Villaverde che, nel secolo scorso, scriveva in difesa degli schiavi e dei neri, ma senza dar loro voce in prima persona, Travieso Serrano, con moderna consapevolezza, ci dice che la storia delle radici nere di Cuba, deve essere raccontata anche per bocca dei neri e degli schiavi.


Da "El Moncada" (n. 2, 1999), per gentile concessione dell'Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba


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