Cuba

Una identità in movimento

Nicolás Guillén: piccola antologia in italiano — 7


A volte...

L’albero

La vita comincia a scorrere...

La sera implorando amore

La piccola ballata di Plovdiv (Bulgaria)

La morte è un tormento...

Il tuo ricordo

Giocavi con una matita

Canzone

Anna Maria

Acqua del ricordo...

Una poesia d’amore

Lei è venuta da lontano...

Madrigale 1

Madrigale 2

Madrigale 3

Notturno

Nulla

Piove ogni domenica...

Se m’avessero detto...

Una fredda mattina...


A volte...

A volte ho voglia d'esser goffo
per dirle: L'amo alla follia
A volte ho voglia d'esser sciocco
Per gridarle: L'amo tanto.
A volte ho voglia d'essere un bambino
per piangere rannicchiato nel suo seno.
A volte ho voglia d'esser morto
per sentire, sotto la terra umida dei miei succhi,
un fiore che mi cresce e mi erompe dal petto,
un fiore, e dirle: Questo fiore,
è per lei.



L’albero

L’albero che rinverdisce ad ogni primavera,
non è più felice di me,
di nuovo verdeggiante.
Le ingiallite foglie son cadute,
e sul mio tronco
tornano coppie tremule
ad intrecciare cifre,
e ci sono cuori fissi
da frecce attraversati,
ma vivi in questa morte.
Quando dico "ti amo,"
la mia voce ripete il vento,
e sulle mie fronde gioca
col tuo nome e un uccello
figlio d’aprile e di marzo.



La vita comincia a scorrere...

La vita comincia a scorrere
da una sorgente, come un fiume;
a volte il letto s’ingrossa,
e a volte rimane asciutto.
Dalla sorgente che sgorgò
per dare vita a te,
ahi, né una goccia restò per me:
la terra se la succhiò.
Se anche tu dici di no,
il mondo sa che così è,
che né una goccia restò
dalla sorgente che sgorgò
per dare vita a te.



La sera implorando amore

La sera implorando amore.
Aria fredda, cielo grigio.
Morto sole.
Penso ai suoi occhi serrati,
la sera implorando amore,
alle sue ginocchia esangui,
alle mie mani d’unghie verdi,
e alla sua fronte incolore,
e alla sua gola sigillata...
La sera implorando amore,
la sera implorando amore.
No.
No, che già segue i miei passi,
no;
che mi saluta e mi parla,
che guardo il suo funerale,
che mi sorride, distesa,
distesa, soave e distesa,
sopra la terra, distesa,
morta infine, distesa...



La piccola ballata di Plovdiv (Bulgaria)

Nell’antica città di Plovdiv,
lontan, laggiù
il mio cuore è morto una notte
e nulla più.
Un lungo sguardo verde,
lontan, laggiù,
umide labbra proibite.
Il cielo bulgaro brillava,
pieno di stelle tremolanti.
Oh, lenti passi nella via,
ultimi passi per sempre.
Presso la porta misteriosa
la mano bianca,
un solo bacio.



La morte è un tormento...

La morte è un tormento
banale, se raffrontato
con questo andare a tentoni
dietro una vaga ombra.
Scambiarsi per via
brevissime parole,
cose che tutti dicono
e che non dicono niente.
Vedrò arrivare il giorno
in cui di nuovo mi senta
pendente dalle tue labbra
per un chiaro sentiero,
alto il cielo senza nubi
e senza nubi l’anima?
Oh chi potrebbe, amica,
fredda, impassibile statua,
parlarti come prima
ogni giorno ti parlavo,
bere il tuo fiato puro
in amorose ansie,
sentir la tua voce tremare
come una volta tremava,
e come un tempo sentirmi
padrone delle tue lacrime!



Il tuo ricordo

Sento che il tuo ricordo si distacca
dalla mia mente come una vecchia stampa;
la tua figura non ha più testa
e un bracchi s’è già scomposto, come in quelle
desolate calcomanie
che i ragazzi attaccano a scuola
e sono poi nel libro abbandonato
una macchia confusa.
Quando stringo il tuo corpo
ho la sensazione che sia fatto di stoppa.
Mi parli e la tua voce viene da tanto lontano
che riesco appena a udirti.
E poi più non ti credo.
Io stesso, ormai curato dalla passione antica,
domando come mai ho potuto amarti,
tanto inutile, tanto vana,
tanto inconsistente che prima di scader l’anno
d’averti tra le mie braccia
già ti stai sfacendo come uno straccio di fumo,
già ti stai cancellando come un disegno antico,
già ti distacchi dalla mia mente
come una vecchia stampa.



Giocavi con una matita

Giocavi con una matita,
tacita e pensierosa,
sopra l’intatto foglio
dove nulla scrivevi.
Ti salutai partendo,
ma la voce tua fu schiva;
gridai poi il tuo nome,
e tu lo sguardo alzasti,
e dai tuoi neri occhi
sotto la luce stupita
seppi ch’eri distante...
Da che paese tornavi.



Canzone

In che tacita maniera
mi s’insinua lei sorridente,
come se fosse
la primavera!
(Ed io morente).
In che modo sottile
m’ha sparso nella camicia
tutti i fiori d’aprile.
Chi le ha detto che io ero
sempre riso, giammai pianto
come se fossi
la primavera?
(Non son tanto).
Invece, che cosa spirituale
che lei mi offra una rosa
del suo roseto speciale!
In che tacita maniera
mi s’insinua lei sorridente
come se fosse
la primavera!
(Ed io morente).



Anna Maria

Anna Maria,
la treccia che ti cade
sopra il petto, mi guarda
con occhi di serpente
dalla sua pelle ritorta.
Io tra tutte le tue grazie
preferisco il sorriso
con cui nell’incendio nascondi
la tua stessa fiamma.
E quando ti percorrono
le nubi pensierose
e nel tuo corpo metallico
la tempesta si distende
come un lento e soave
serpente in equilibrio.



Acqua del ricordo...

Quando fu?
Non lo so.
In acqua del ricordo
vo a navigare.
Passò una mulatta d’oro,
e io la guardai passare:
fiocco di seta sulla nuca,
gonna lunga di cristallo,
fanciulla dalla schiena fresca,
tacco di fresca andatura.
Canna
(febbrile le dissi tra me),
canna
fremente sopra l’abisso,
chi ti sospingerà?
Chi sarà che col machete
ti taglierà?
E quale sarà il frantoio
che ti macinerà?
Da allora il tempo corse,
corse il tempo senza tregua,
io di là, io di qua,
io di qua, io di là,
ora di là, ora di qua,
ora di qua, ora di là...
Non so, non si sa nulla,
e nulla saprò mai,
nulla hanno scritto i giornali,
nulla ho potuto scoprire
su quella mulatta d’oro
che una volta guardai passare,
fiocco di seta sulla nuca,
gonna lunga di cristallo,
fanciulla dalla schiena fresca,
tacco di fresca andatura.



Una poesia d’amore

Non so... L’ignoro.
Non ricordo quanto tempo sono vissuto
senza incontrarla di nuovo.
Forse un secolo? Forse.
Forse un po’ meno: novantanove anni.
Oppure un mese? Può darsi. In ogni caso
un tratto di tempo enorme, enorme.
Infine, come una rosa subitanea,
repentina campanula tremante,
ecco la notizia.
Sapere d’improvviso
che stavo per rivederla ancora, che l’avrei avuta
vicina, tangibile, reale, come nei sogni.
Che esplosione contenuta!
Che tuono sordo
mi circola nelle vene,
e scoppia là, in alto,
dentro il mio sangue, in
una notturna tempesta!
E il ritrovarci, poi? E la maniera
di salutarci, una maniera
che nessuno avrebbe mai compreso,
che è proprio la nostra maniera?
Uno sfiorarsi appena, un contatto elettrico,
una stretta di mano cospirativa, uno sguardo,
un palpito di cuore
che grida, che urla con silenziosa voce.
E poi
(lo sapete dai quindici anni)
quell’aleggiare delle parole prigioniere,
parole dagli occhi bassi,
parole reclusorie
fra ostili testimoni.
E ancora
un amore fatto di "io l’amo,"
di "lei," di "vorrei proprio,
ma è impossibile..." Di "non possiamo,
no, ci pensi meglio..."
E un amore così,
è un amore d’abisso in primavera,
cortese, cordiale, felice, fatale.



Lei è venuta da lontano...

Lei è venuta da lontano
e io, senza aspettarla,
sapevo che arrivava.
Che fare, se posso appena
vederla al passo del vento,
se la sua voce è profumo
che mi perseguita e fugge,
se il suo corpo è un sogno
da cui mi desto in pianto,
se le sue mani son petali
che solo posso sfiorare,
e il suo riso, arcobaleno
lontano, nel silenzio
umido della sera?
Che fare, se posso appena
vederla al passo del vento?



Madrigale 1

Semplice e verticale,
come una canna nel canneto.
Oh sfidante della furia genitale:
tuo passo fabbrica per lo spasmo gridante
spuma equina fra le tue cosce di metallo.



Madrigale 2

Dalle tue mani grondano
le unghie, in un mazzo di dieci uve rosse.
Pelle,
carne di tronco bruciato,
che quando naufraga nello specchio, affuma
le alghe timide del fondo.



Madrigale 3

Il tuo ventre ne sa più della tua testa
e quanto le tue cosce.
Questa
è la forte grazia negra
del tuo corpo nudo.
Marchio di selva è il tuo,
con rosse collane,
braccialetti d’oro ricurvo,
e quel caimano oscuro
che nuota.



Notturno

Giunse avvolta nella pioggia,
di notte. Bussò al cupo
portone e brillò un grido.
Scesi, sotto la pioggia,
sotto il cielo immediato,
lento, di quella notte.
— Eccomi! — disse — Eccomi!,
perché lontano, sola,
laggiù sola, così lontano,
in quel mondo minimo,
nero, silente, ed umido
morivo un’altra volta.
— Eccomi! — disse — Eccomi!
Le guardai l’abito.
Era rivestita di bagliori.
Emanava dal petto
luce di San Telmo, fredda,
fosforo delle tombe,
sostanza d’arcobaleno.
Gli occhi calmiverdi,
come spade d’acciaio,
il corpo immoto, fisso,
pelle di marmo marmo
e sulle labbra la stessa
voce, la tremenda voce:
— Eccomi! — disse — Eccomi!
Chi sei? — gridai allora,
turbato. Lei, sorridente,
mi rispose: La tua colpa,
la tua lampada d’insonnia,
implacabile e tenace.
Ho freddo. Non voglio
morire di nuovo. Dammi
il tuo sole. Dammi i tuoi denti.
Dammi il tuo cuore.
Sopra vi poserò le mani,
sulla sua brace rossa
le mie mani palpitanti...
— Eccomi! — disse — Eccomi!



Nulla

Il tempo passa silenzioso
con un passo d’acqua notturna,
e la mia fronte taciturna
vede e il petto mio senza riposo.
In questo tempo silenzioso
strozzo la voce d’acqua notturna:
chino la fronte taciturna,
riposo il petto senza riposo.
Serbo la pena nel penaio.
Serbo l’anima nell’armadio.
Serbo la voce come una spada.
Non ho più nulla, nulla voglio.
Non cerco nulla, nulla spero.
Nulla.
Io ero ricco. Avevo
una chitarra d’acqua fresca,
un usignolo nella foresta
e il gran fulgore del meriggio.
Ma ho perduto ciò che avevo:
l’usignolo e l’acqua fresca
e la chitarra e la foresta.
Notte mi s’è fatto il meriggio.
Chiedo elemosina. Ma in vano
tendo la voce, apro la mano.
Lei comprende, smemorata?
Non ho nulla, nulla spero.
Non cerco nulla, nulla voglio.
Nulla.



Piove ogni domenica...

I
Piove ogni domenica.
Di nuovo la tristezza.
Il cuore mi sanguina
come ferita aperta.
Dove stai? In un sogno
dove c’è notte e neve.
II
Oh, mia adorata. Cerco
il cuscino in cui possa
reclinarsi per sempre
la mia testa infocata.
T’imploro, piango, prego.
Verrai? Ah, se venissi...
Piove ogni domenica.
Di nuovo la tristezza.
III
Non so che m’accade.
Ma la tua dura assenza
è un marmo di sepolcro
che sul cuore mi pesa.
Passati sono i giorni
di rose e foglie fresche.
Piove ogni domenica.
Di nuovo la tristezza.
IV
Si fermano le ore,
scarnite dall’attesa;
svaniscono i miei sogni,
trafitti dai tuoi dardi.
Il cuore mi sanguina
come ferita aperta.
Piove ogni domenica.
Di nuovo la tristezza.



Se m’avessero detto...

Se m’avessero detto
che sarebbe giunta l’ora
che non saremmo stati
più che semplici amici,
non lo avrei creduto.
Che ci avrebbero veduto
parlare indifferenti
del sole o della pioggia
come semplici amici.
Ahi, che pugnale appuntito
è questo per la cui ferita
muoio e mi dissanguo!…
Se me lo avessero detto
non l’avrei creduto.



Una fredda mattina...

Penso a quella fredda mattina che son venuto
da te,
là dove l’Avana vuol fuggire in cerca dei campi,
là nella tua chiara periferia.
Io con la mia bottiglia di rum
e il libro delle mie poesie in tedesco,
che alla fine t’ho regalato.
(Oppure te lo sei tenuto?)
Perdonami, ma quel giorno
mi sei sembrata una bambina sola,
o forse un passerotto bagnato.
Mi venne voglia di chiederti:
E il tuo nido? E i tuoi dove sono?
Ma non avrei potuto.
Dall’abisso della tua blusa,
come due coniglietti caduti in un pozzo di grida m’assordavano i tuoi seni.




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Webmaster: Carlo Nobili — Antropologo americanista, Roma, Italia

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